Si sente spesso dire che l’umanità ha bisogno di miti e io non mi sento di contraddire questa sentenza, probabilmente vecchia come l’umanità stessa. Ogni epoca si sceglie i suoi miti, eleva altari alle sue divinità e celebra i suoi riti. Ma forse l’umanità, man mano che invecchia (e basta guardarsi intorno per prenderne atto), sceglie forme di celebrazione sempre più patologiche. Ogni giorno muoiono milioni di esseri umani, bambini compresi; muoiono di fame, di malattie, di guerre. Pochi giorni fa è morto anche un uomo che si chiamava Diego Armando Maradona e incarnava un mito. Così in tutto il mondo le masse hanno urlato il loro lutto, per strada o sui social; e i professionisti della comunicazione hanno spiegato il fenomeno con uno tsunami di frasi fatte, di banalità e di idiozie. Ecco cosa intendo con “celebrazioni patologiche”. Purtroppo poi c’è chi si prende la briga di segnare la data sul calendario, in modo che ogni anno si possano ripetere gli stessi riti.
Diego Armando Maradona
L’8 dicembre cade il 40° anno da un fatto di cronaca che ha sconvolto il mondo: quel giorno, a New York, un fan (Mark David Chapman) ha chiesto un autografo al suo dio e poi lo ha ucciso. Così è morto un uomo chiamato John Lennon, che incarnava un mito. Le celebrazioni sono già cominciate da più di una settimana: è già partito lo tsunami dei media. Ma forse qualcuno si chiederà: perché tanto rumore per il tragico fatto che ha determinato il fine vita di quest’uomo? Perché non dare più risalto alla data di nascita, o meglio ancora alla data di uscita dei suoi lavori più importanti? Semplice: perché la cosa che conta di più è la morte del dio.
John Lennon
Nel delirio delle celebrazioni c’è sempre un uso smodato (anche qui patologico) di espressioni come “il più grande”. Così anche per Lennon c’è già chi ha parlato del “più grande musicista del secolo scorso”. Ma alcuni guastafeste (appartenenti a un’infima minoranza) si chiederanno: «E Strawinsky, Schoenberg, Dylan, Parker, Coltrane?». Lennon è stato certo un ottimo musicista e poeta, che si è espresso nella cosiddetta forma canzone, umile e meravigliosa, alla portata di tutti. Ma non è stato il solo… Però, a differenza di molti altri, è morto giovane ed è stato ucciso: è il dio sacrificato. E per questo le celebrazioni puntano sulla data di morte, piuttosto che su quella di nascita. Per questo diventa il dio più grande.
C’è anche un altro ingrediente essenziale nel mito lennoniano: la solitudine che, a dispetto dell’enorme popolarità, ha segnato tanti artisti dall’infanzia difficile e dalla morte precoce. Ma è successo anche a Caravaggio, a Mozart e a Rimbaud, come pure nel ‘900 a Modigliani, James Dean, Bruce Lee. È un tratto così comune da diventare noioso. Comunque, si sa, nutre la mitologia.
Central Park, New York: lo Strawberry Fields Memorial in ricordo dell’ex Beatles
Ora però la manìa delle celebrazioni ha proprio stufato… Proviamo a immaginare un’umanità che rinuncia a fare tante inutili chiacchiere su improbabili dei (“No religion, no war…”, come cantava lui). Se davvero ci teniamo a ricordare un artista, se è questo che conta e non quell’egotica identificazione dell’uomo qualsiasi (senz’arte né parte) nel dio sacrificato, allora prendiamo i pezzi più belli di John Lennon, o meglio ancora i più adatti a essere reinterpretati, e affrontiamoli con creatività. Cioè, se davvero vogliamo celebrarlo, non facciamolo con tante deliranti parole e tante orrende cover, ma proviamo a rivisitare in diversi modi una musica e improvvisarci sopra. Diamo nuova vita al mito e lasciamo il resto alla pompe funebri.