Il 1972 fu un annus mirabilis per Bob Weir. A 25 anni, il chitarrista ritmico dei Grateful Dead usciva dall’ombra protettiva del mentore Jerry Garcia, iniziava una collaborazione di lunga data con l’ex compagno di collegio, poeta e autore di testi John Perry Barlow e pubblicava il suo 1° album solista Ace, appena ristampato dalla Rhino su vinile o doppio Cd con 1 disco dal vivo in aggiunta. Quasi un album dei Dead, in sostanza, perché vi suonarono Garcia (chitarre), il bassista Phil Lesh, il batterista Bill Kreutzmann e il tastierista Keith Godchaux (assenti i soli Mickey Hart, temporaneamente fuori dal giro; e Ron “Pigpen” McKernan, già molto malato e debilitato), mentre il paroliere Robert Hunter firmava con il titolare un paio di pezzi.
Tutti conoscevano bene le canzoni (la maggior parte era già stata testata dal vivo nell’ultimo anno e 7 su 8 sarebbero rimaste stabilmente in repertorio fino agli anni 90: indice inequivocabile di sostanza e di qualità) e, come sempre succedeva con il collettivo anarcoide di San Francisco, tutto accadde un po’ per caso o per disegno divino, senza la minima pianificazione ma con quell’atteggiamento freak, aperto, comunitario e libertario che ha reso tutti i dischi registrati in quei luoghi e in quel momento avventure musicali irripetibili e indimenticabili. A partire dalla sera di San Valentino del 1972 e con 2 settimane e ½ appena a disposizione per completare le registrazioni e i missaggi con i fedeli fonici Bob Matthews e Betty Cantor, tutti gli amici cominciarono a fare capolino in sala di registrazione, lì al Wally Heider nel quartiere del Tenderloin frequentato con regolarità anche dai Jefferson Airplane, da David Crosby e da Graham Nash (che proprio nella sala accanto, con Garcia e Lesh, stavano incidendo il loro 1° album in coppia), dove i Dead avevano realizzato American Beauty e dove pochi mesi prima anche Garcia aveva fissato su nastro il suo 1° e omonimo disco solista. «In fondo sapevo bene cosa sarebbe successo», raccontò Weir alla rivista Crawdaddy qualche mese dopo le session. «Tutti vennero a sapere che avevo prenotato lo studio e che stavo per entrarci. E così, uno alla volta, cominciarono a farsi vedere da quelle parti…».
Bob Weir
Bob, fino a quel momento non proprio un compositore prolifico, si era isolato nel mese di gennaio in una capanna del Wyoming sepolta dalla neve messagli a disposizione da Barlow, che lì aveva un ranch, per trovare ispirazione e aggiungere nuove canzoni ai 3 brani e ½ che aveva già nel cassetto. «Non c’era nessuno, intorno, ma per me non era un problema». Nessuno, aggiunse, se non 800 mucche da nutrire e 1 fantasma che gli spaventava a morte Moondog, il suo fedele malamute, con effetti indesiderati («Terrorizzato, cagava per tutta la stanza»).
«Imparai una cerimonia, un semplicissimo rituale esorcista che dovevo praticare 2 volte al giorno per tenerlo fuori dall’abitazione: una volta all’alba e un’altra al tramonto», raccontò alla rivista americana Rock nel 1973 e chissà se oggi confermerebbe quella versione. Con lo spettro dispettoso, che cercava di insinuarsi nella sua testa, giunse a un patto di non belligeranza: «Me ne stavo in salotto a suonare le mie canzoni, e finché lo facevo se ne stava tranquillo. Quando smettevo ricominciava a fare quegli strani rumori nello scaldabagno in cui si era nascosto».
LSD, magia, immaginazione, contatti con il mondo invisibile: ci si potrebbe aspettare da Ace uno sballo psichedelico, un trip lisergico, un viaggio tortuoso nei meandri della mente, un’esplosione di colori accecanti. E invece è, fondamentalmente, un bellissimo disco di rock and roll e di ballate americane, sull’onda di Workingman’s Dead e di American Beauty, anche se stavolta a guidare la carovana era solo e sempre lui. Incaricato dal vivo, in virtù di una voce roca, grintosa e un po’ sgraziata in contrasto con quella sottile e soave di Garcia, di cantare le cover degli Isley Brothers e di Chuck Berry, nel suo album Weir sforna pezzi spicci e veloci come Greatest Story Ever Told (una rielaborazione della Pump Song già proposta da Mickey Hart nell’album solista Rolling Thunder, con Dave Torbert dei New Riders Of The Purple Sage al basso mentre Garcia spinge sul pedale wah wah della chitarra) e One More Saturday Night (con la tromba di Luis Gasca e il sax di Snooky Flowers, reduci dalla Kozmic Blues Band di Janis Joplin), pezzi che con il padre del rock and roll inventore del duck walk hanno molto a che fare.
Ma anche i semi della svolta country rock anni 70 dei Dead sono sparsi ovunque: nella falsa pedal steel di Black-Throated Wind, che “ruba” il ritmo in stile New Orleans ad Allen Toussaint; e in quella reale di Looks Like Rain, ancora oggi considerate 2 delle più belle invenzioni melodiche di Weir; la prima di nuovo punteggiata dai fiati, la seconda incorniciata da una sezione d’archi discreta e non invasiva (dopo avere assunto una robusta dose di bourbon Wild Turkey, Bob si convinse che ad avergli suggerito il titolo fosse stato un guerriero indiano a cavallo e a braccia allargate raffigurato in un dipinto della capanna). Il tex mex & roll al gusto mariachi di Mexicali Blues («Una boogie polka», secondo Jesse Jarnow, autore di Heads: A Biography Of Psychedelic America e delle note di copertina di questa ristampa), prendeva spunto da un viaggio che Bobby e Barlow fecero oltre confine, a far visita in galera a un amico beccato con della roba in Messico; ed è in perfetta sintonia con l’immagine da cowboy fuorilegge che i Dead s’erano dati per gioco in quegli anni.
Il cantante e chitarrista californiano con Jerry Garcia (1972)
È il pezzo più spensierato e leggero del lotto e 1 dei più brevi, al contrario di Playing In The Band, scritta con Hart e Hunter; e come Truckin’, destinata a celebrare il ritmo incessante della musica e della vita on the road (“Posso predirti il futuro/guarda cos’hai in mano/Ma non c’è nulla che possa fermarmi/io suono nella band”). Già pubblicata l’anno prima in una versione più breve e ancora in progress sul live Grateful Dead con il famoso teschio ornato di rose in copertina, qui apre le porte all’unica jam session del disco: i suoi 7 minuti e ½ diventeranno 20 e oltre nelle successive incarnazioni dal vivo e ne faranno l’inossidabile biglietto da visita di Weir, spesso suonato in infinite medley con altri pezzi. Diventerà 1 di quei brani che danno ragione a Bob Dylan quando nella sua Filosofia della canzone moderna di recente pubblicazione sostiene che i Grateful Dead siano stati essenzialmente una dance band più vicina al bebop e ad Artie Shaw che ai Byrds, ai Rolling Stones e al rock and roll.
L’altro gioiello, stavolta una creazione di studio che la band avrebbe iniziato a suonare dal vivo solo dal 1974 e più regolarmente dal 1976, è Cassidy, una ballad con un indimenticabile riff di chitarre che qui sembra ancora doversi fare le ossa, più fragile che nelle sue evoluzioni future: un’ode alla bimba appena nata di un’amica che per assonanza diventa anche una dedica a Neal Cassady, l’amico ed eroe della Beat Generation morto nel 1968, sodale dei Dead, di Ken Kesey e dei Merry Pranksters, profeta dell’LSD e coprotagonista principale, sotto lo pseudonimo di Dean Moriarty, di Sulla strada di Jack Kerouac. È 1 delle 4 canzoni in cui si sente la voce di Donna Jean Godchaux, ex corista di Elvis Presley, Wilson Pickett e Cher nonché moglie di Keith, che qui fa praticamente il suo debutto ufficiale nella famiglia Dead.
La “cenerentola” è invece Walk In The Sunshine («Forse la canzone più brutta che abbiamo mai scritto», è il giudizio ingeneroso di Barlow), un boogie rock pubblicato e subito abbandonato, proposto una sola volta da Weir con i RatDog negli anni 90 e mai più eseguito dal vivo fino all’aprile dell’anno scorso, quando con la sua nuova formazione, i Wolf Bros. alias Don Was al basso, Jay Lane alla batteria e Jeff Chimenti alle tastiere, ha risuonato Ace integralmente e nella sequenza originale alla Radio City Music Hall di New York: ne riascoltiamo la registrazione nel 2° Cd della fresca ristampa, con la voce roca del cantautore country-folk Tyler Childers in Greatest Story Ever Told; quella dell’afroamericana Brittney Spencer proprio in Walk In The Sunshine e in Looks Like Rain; la pedal steel di Barry Sless a spargere aromi di Garcia; gli archi e i fiati dei Wolfpack a colorare di jazz e di timbriche nuove pezzi celebri ma totalmente rielaborati, spesso diluiti e rallentati (Mexicali Blues la più simile a se stessa, Cassidy magistralmente reinventata), con un groove rilassato e nuovi arrangiamenti che lasciano la porta aperta a infinite variazioni e improvvisazioni evitando l’effetto nostalgia. Perché la musica dei Grateful Dead non è congelata nel passato: per qualche strano mistero e per come è stata originariamente concepita vive invece, come scrive acutamente Jarnow nelle note di copertina, in un eterno presente.