Stavolta farò un’eccezione. Non parlerò nè di una meteora e tantomeno di un figlio minore di Re Calcio, ma di un autentico Grande. Ho sempre avuto, infatti, un debole per Angelo Domenghini; e mi è sempre dispiaciuto che il suo ricordo, nella Grande Inter di Angelo Moratti, passi sempre sotto traccia. Per quale motivo? Era una persona schiva? Poco propensa alle pubbliche relazioni? Sicuramente. Non ha fatto 1 dei gol storici della Grande Inter? Che so: la “foglia morta” di Mario Corso contro il Liverpool? 1 gol in una finale? No, Domenghini non ha realizzato reti storiche. In pochi ricordano, però, che è stato acquistato come prima punta dall’Atalanta e che qui, nel 1963, si era rivelato fra gli artefici del cammino in Coppa Italia, quando la squadra orobica ha vinto in finale con 3 suoi gol.

Credo che alla sua gloria abbia nuociuto una terribile battuta pronunciata da Renata Prada, la moglie dell’allora presidente dell’Inter, Ivanoe Fraizzoli: «Valgono più 10 minuti di Corso che 1 ora e mezza di Domenghini». Dichiarazione profondamente ingiusta: sia perché il Mago Helenio Herrera avrebbe sacrificato Corso e non Domenghini; sia perché calciatori tanto diversi non vanno paragonati; sia perché battute come questa sprofondano nella mediocrità la fama di Domenghini; il quale, viceversa, si è dimostrato un grande calciatore. E nel mio piccolo credo di poterlo dimostrare.

Dotato di un fisico longilineo ma robustissimo, di una resistenza fisica non comune e di uno spirito di sacrificio inusuale, certamente ereditato dalle origini di ragazzo poverissimo, il lombardo era un attaccante che impegnava le difese perché non era statico e svariava su tutto il fronte dell’attacco; poteva aspettare la palla ma, più spesso, l’andava a cercare; era dotato di una buona finta di corpo che gli consentiva di superare il difensore quando lo attaccava in velocità; sapeva tirare botte violentissime con entrambi i piedi. Era in definitiva un giocatore che avrebbero voluto tutti gli allenatori, senza contare il fatto che la sua media gol, giunto all’Inter, era buona: all’incirca 1 ogni 3 partite. Il suo podismo senza risparmio e il suo gioco corretto ma aggressivo, raramente sono stati riconosciuti come gloriose concause di quella grande squadra; ma è anche grazie a lui se Mario Corso poteva consentirsi le sue pause, Sandro Mazzola poteva attraversare le difese avversarie con i suoi dribbling, Jair poteva perforarle con la sua velocità.

Non è chiaro il perché, pur avendo esordito in Nazionale nel 1963, Domenghini non abbia figurato nella rosa degli sciagurati Mondiali del 1966; anche se, più o meno nello stesso ruolo, c’era un autentico genio come Gigi Meroni. Non si può escludere che il commissario tecnico Edmondo Fabbri, in evidente idiosincrasìa nei confronti della Grande Inter, fra il Marino Perani del “suoBologna e Angelo Domenghini abbia preferito scegliere il 1°. Anche se il 2° era indubbiamente migliore.

Ma si è rifatto, sotto il CT Ferruccio Valcareggi, mettendo insieme un buon numero di presenze in Nazionale e una in particolare da protagonista dell’Europeo vinto nel 1968: nei quarti, una sua botta su punizione ha piegato le dita al portiere bulgaro Simeonov portandoci sul 2 a 0 finale; contro l’URSS, un suo palo clamoroso per poco non ci ha fatto vincere (ma poi ci ha pensato la fatidica monetina) e infine, nella prima finale contro la Jugoslavia ci ha salvato un altro suo gol su punizione.

Alla fine l’Inter lo ha ceduto al Cagliari ed è stato anche un buon affare per tutti: ha vinto lo scudetto diventando un ottimo partner per Gigi Riva e l’Inter ha acquisito un grande attaccante come Roberto Boninsegna. Ma la vera consacrazione credo sia stato il Mondiale in Messico: destinato a essere, in teoria, il luogo peggiore dove avrebbe potuto esprimere il suo calcio. I 2.000 metri di quota, avrebbero favorito un calcio lento, palleggiato: il che era vero, eppure il Domingo ha smentito la realtà biologica, perché quando andiamo a recuperare i filmati dell’epoca vediamo che per lui era come se i 2.000 non esistessero. Anzitutto è stato l’autore dell’unico gol del nostro girone di qualificazione. Per quanto avesse contribuito il portiere svedese, facendosi passare sotto la pancia il suo destro, la dinamica di questo gol dimostra come il campione bergamasco sia stato un precursore di un grande come l’olandese Arjen Robben, specialista nel partire dall’ala destra o sinistra, convergere verso il limite dell’area e tirare col piede opposto. Ecco, Domenghini ha fatto lo stesso: partito da sinistra, ha tirato in porta col destro anche perché – forse molto più di Robben – fascia destra o sinistra per lui pari erano.

Questo gol dimostrava anche un’altra cosa: a differenza di gran parte degli attuali calciatori, Domenghini sapeva osare. Oggi vedere un calciatore che fuori area alza la testa, guarda e tira, è diventata una rarità. Ma questo non valeva per lui: l’Italia non avrebbe mai raddrizzato la partita dei quarti di finale contro il Messico se lui, da posizione defilatissima sulla fascia destra, non avesse calciato incontrando la deviazione in rete di Gustavo Peña Velasco. Per me, però, rimane mitologica la sua partita contro la Germania. Quel famoso 4 a 3 è passato alla storia per la “staffetta”, per la sequenza al cardiopalma dei gol; ma dopo averla vista e rivista, mi sono convinto che se l’Italia è riuscita bene o male a reggere l’ha dovuto allo sforzo mostruoso di Domenghini; apparentemente l’unico che sembrava giocare come fossimo al livello del mare piuttosto che in altura. Era lui quello che supportava la difesa andando avanti e indietro; e che appena vedeva la possibilità tirava. Insomma, se quella partita è entrata nell’Olimpo del Calcio, io vi dico che il Dio di quell’Olimpo si chiamava Angelo Domenghini da Lallio, Bergamo.