L’8 maggio 1965, a Chicago, un gruppo di musicisti avanguardisti che partono dall’esperienza del free jazz per sviluppare nuove forme espressive (nel loro ambito contemplano anche gli happening, memori della lezione del Living Theatre) dà vita all’AACM/Association for the Advancement of Creative Musicians. Alla guida c’è un giovane pianista, Muhal Richard Abrams, che ha saputo raccogliere accanto a sè il meglio della scena musicale chicagoana: da Fred Anderson, sassofonista di scuola hard bop che ha appena abbracciato le istanze del free; ad Anthony Braxton, astro nascente e compositore di geniali partiture; fino a Roscoe Mitchell, Henry Threadgill, Joseph Jarman, Von e Chico Freeman (padre e figlio tenorsassofonisti di grande talento) e George Lewis, nume tutelare del nuovo modo di interpretare il trombone.
Art Ensemble of Chicago
La storia del jazz è una storia di migrazioni, di grandi spostamenti di masse verso nuove opportunità lavorative e welfare. La prima tappa è ovviamente New Orleans: qui, a cavallo tra il 19° e il 20° secolo vanno a miscelarsi quegli elementi che poi avrebbero dato vita a quella musica che oggi chiamiamo jazz. Ma che per sua stessa definizione è una musica “in divenire“, in continua evoluzione e sviluppo. Ecco allora che migra, si sposta, si muove in direzione Chicago, “la città dalle spalle larghe“, per dirla con il poeta Carl Sandburg. Qui si ritrovano King Oliver, Louis Armstrong, Earl Hines, Jelly Roll Morton accanto a una serie di musicisti bianchi quali Bix Beiderbecke, Benny Goodman, Gene Krupa, Eddie Condon, Mezz Mezzrow. Nei primi anni 30, poi, la scena si sposta a New York e la “città ventosa” finisce nell’oblìo.
Nel 1961 Muhal dà vita all’Experimental Band, coacervo di talenti e fucina di futuri protagonisti della musica afroamericana. Fra questi Roscoe Mitchell e Joseph Jarman, sassofonisti dell’Art Ensemble of Chicago, gruppo straordinario che ha letteralmente caratterizzato gli anni 70 e 80 della nostra musica. Dopo un 1° periodo fatto di fame vera, stenti e privazioni, la fuga a Parigi dove riusciranno miracolosamente a farsi ascoltare, a promuovere la loro arte e dove incontreranno il magnifico Famoudou Don Moye, batterista e percussionista ideale. La band diviene la punta di diamante dell’AACM e porta in giro per il mondo il suo messaggio di libertà espressiva e di iconoclasta rivoluzione.
Accanto a Mitchell e a Jarman c’è il trombettista Lester Bowie, fra i protagonisti assoluti dell’evoluzione dello strumento, figura chiave per comprendere la tromba post Miles Davis e musicista dalla sottile ironia incline allo sberleffo e alla provocazione dadaista mai fine a se stessa. Per concludere i 2 ritmi: Malachi Favors al contrabbasso, metronomo della band e fine tessitore di trame ritmiche dense, a volte magmatiche e torrenziali, a tratti eleganti e raffinatissime; e Don Moye, batterista dal tocco personalissimo, maestro di atmosfere e di cromatismi che come un Jackson Pollock ritmico distilla gocce di sapienza sulla “tela musicale” del quintetto, impreziosendola con “lanci di vernice” a volte violentemente “espressionisti“, spesso delicatissimi e quasi sussurrati. Un quintetto perfettamente assortito nelle singole personalità, ma quantomai coeso e aderente a un’estetica comune.
Il retro copertina di Nice Guys
Sul palco si presentano travestiti: Lester Bowie con il suo proverbiale camice da dottore, Roscoe Mitchell in abiti borghesi da contabile di banca, Joseph Jarman, Malachi Favors e Don Moye truccati in volto come griot africani, stregoni del villaggio globale. Tutti, poi, si cimentano con un fitto arsenale di percussioni: sia ortodosse, sia costruite ad hoc. La loro musica è irriverente, creativa, figlia di quella che definiscono “Great Black Music” che va dal ragtime al blues, dal reggae al soul, dal funk più ostinato al bebop, dal gospel al free jazz, dal mainstream alla dodecafonica.
In 40 anni di onoratissima carriera hanno prodotto vari capolavori, ma forse il loro zenith è Nice Guys, inciso per la ECM Records e con quella meravigliosa foto di copertina che li ritrae seduti al tavolino di un bar in Italia. Il berrettino di lana che indossa Don Moye è nella mia collezione di cimeli jazzistici, dal momento che è stato proprio lui a regalarmelo, qualche mese dopo, in occasione di una seduta d’incisione agli Studi Barigozzi di Milano.
Registrato nel 1979, Nice Guys si inserisce alla perfezione in quella che è l’estetica dominante dell’epoca. Viene definita musica “creativa“, per distinguerla dall’imperante riproposizione di un vecchio e stantìo hard bop che ha ormai esaurito la propria carica dirompente. È musica libera, che pur inglobando stilemi provenienti dalla grande tradizione li permea di una sottile patina di espressionismo sonoro, figlio del miglior free jazz, senza per questo voler essere ostica per le orecchie dell’ascoltatore. Percussioni che esaltano lo spirito collettivo della band, emergono con prepotenza accanto a esibizioni soliste, specie di Lester Bowie, perfetto nell’intonazione e nella scelta delle note; e Roscoe Mitchell, sassofonista che nel suo stile riesce a fondere l’eleganza di un Warne Marsh “sporcandola” con un tocco di sana iconoclastìa alla Albert Ayler.
Tutta la musica nera echeggia in queste composizioni. Non un solo momento, o periodo storico, viene dimenticato: tutto confluisce in una pan musica primordiale che emoziona, cattura, rapisce, inchioda all’ascolto. Merito speciale del disco è inoltre quello di preparare l’ascoltatore all’esplosione finale del capolavoro, Dreaming Of The Master, dedicato a Miles Davis: un blues che a tratti può far venire in mente All Blues, ma in realtà s’impone come 1 dei brani più importanti e influenti dell’epoca. Lester Bowie si ritaglia 1 assolo da incorniciare per forza espressiva, per capacità strumentale, per coinvolgimento. Il suo intervento è una gemma di rara bellezza. Sorretto da una ritmica impeccabile, fornita da Favors con un walking bass incalzante e da Moye che sostiene tutto con un piatto ride calibratissimo e mai invadente, si lancia in un’esposizione di note, tutte intonate, ognuna ben distinguibile dall’altra; e in frasi brevi ma di un’intensità unica. Il linguaggio trombettistico, insomma, sintetizzato in quasi 12 minuti in cui gli si affiancano i sax ispirati e iconici di Jarman e Mitchell. Raro esempio di totale adesione della band a un’estetica comune, momento di perfezione assoluta in termini di timing, fraseggio, interplay, esposizione del tema e relative “improvvisazioni sul tema“, Dreaming of the Master è un condensato di creatività, sperimentazione, rigore, apertura mentale.
Nice Guys, che ha imposto l’Art Ensemble of Chicago anche all’attenzione di chi non si interessava di musica creativa e di nuove tendenze, ha influenzato le future generazioni di musicisti e lasciato una eco nei lavori di David Murray, John Zorn, Steve Coleman e Vijay Iver. Tristan Tzara, tra i fondatori del Dadaismo, sosteneva che l’avanguardia non ha ragione di esistere se non esiste una tradizione da abbattere. L’Art Ensemble of Chicago non intende abbattere una gloriosa tradizione, ma rivitalizzarla e adeguarla alle istanze del presente. “Ancient to the future“, come ricorda il glorioso motto dell’Association for the Advancement of Creative Musicians.