Hermosa Beach è la più famosa spiaggia a sud ovest di Los Angeles. Poco meno di 1 ora di auto e lo splendido panorama dell’Oceano Pacifico si staglia dinnanzi agli occhi. Su questa sabbia dorata si trova il jazz club più famoso della Costa Ovest: il Lighthouse. Gestito dal contrabbassista Howard Rumsey, tra le figure chiave dello stile californiano e leader dei Lighthouse All Stars (formazione che negli anni ha visto transitare tutti i più bei nomi del jazz della West Coast e non solo, avendo ospitato anche personaggi del calibro di Miles Davis, Max Roach e Sonny Rollins) il locale si è imposto sin dalla fine degli anni 40 come “mecca” per i jazzofili californiani.

Diversi album storici e di fondamentale importanza sono stati incisi qui dal quartetto di Elvin Jones al quintetto di Cannonball Adderley; da Joe Henderson al chitarrista Grant Green. Ma la recente ripubblicazione su etichetta Blue Note dell’integrale (12 Lp e 8 Cd) di Lee Morgan con il suo ultimo quintetto intitolata The Complete Live At The Lighthouse, ha fugato ogni dubbio su quale sia stata la performance più emozionante e coinvolgente che il club abbia mai ospitato.

Lee Morgan (1938-1972)
© Joel Franklin

Venerdì 10, sabato 11, domenica 12 luglio 1970 sono le date di un momento indimenticabile, lo zenith di una carriera artistica iniziata nella band di Dizzy Gillespie, proseguita alla corte di Art Blakey e forgiata dalla collaborazione con la Blue Note di Alfred Lion e Francis Wolff incidendo accanto a nomi quali John Coltrane, Herbie Hancock, Andrew Hill, Hank Mobley e Bobby Hutcherson. Parabola musicale e di vita che ha visto Lee Morgan diventare a soli 25 anni il più importante trombettista jazz accanto a Miles Davis, che non a caso lo definiva «il migliore di tutti noi. Un vero bastardo!». Morgan viene dalla tradizione del bop, ma ha saputo attualizzarla e rinnovarla aprendosi alle nuove istanze; prestando orecchio e attenzione per la “new thing” di stampo free che si stava imponendo allora. Sperimentatore nato, non si è mai risparmiato nell’accogliere quegli stimoli che provenivano dalla situazione politica, sociale, razziale degli Stati Uniti.

Da jazzista tossicodipendente e autodistruttivo, diviene un punto di riferimento culturale per il movimento dei diritti civili: amico delle Black Panthers, le fiancheggia senza mai essere estremista e violento. Prende coscienza del suo ruolo di musicista e comprende quanto l’essere artista gli imponga una militanza e un’appartenenza ideologica. Come la sua musica debba essere al servizio della comunità nera, afroamericana. Da sempre è un uomo tormentato che scava nel suo inconscio, che utilizza la tromba e il flicorno per fare sedute di autoanalisi in cui sviscerare i suoi demoni ma anche l’innegabile dolcezza e fragilità. Morgan è un leader esigente, ma anche colui che fa spiccare il volo ai suoi comprimari esaltandone le capacità e incoraggiando il loro talento.

Le premesse per un evento memorabile ci sono tutte, anche perchè il quintetto viene completato da Bennie Maupin al sax, al clarinetto basso e al flauto; da Harold Mabern al pianoforte e dai 2 “ritmi” di sicuro affidamento e professionalità: Jymie Merrit al contrabbasso e Mickey Rocker alla batteria. Con simili talenti, Lee accetta l’ingaggio al Lighthouse apprestandosi a conquistare la California, da sempre terra ricettiva in termini di geniali proposte artistiche e innovazioni stilistiche. Hanno alle spalle solo qualche mese on the road, di tournée, ma il feeling tra i musicisti è perfetto, l’empatìa ai massimi livelli e i riscontri di pubblico e critica non fanno che alimentare la loro voglia di musica performante. Ogni sera provano nuovi arrangiamenti e nuove versioni del repertorio spingendosi sempre più in là, ma senza allontanarsi troppo dal solco di quell’hard bop sanguigno e viscerale che è la matrice della loro musica.

Tutti aderiscono a quell’estetica di chiaro stampo afroamericano, ma la interpretano con una dedizione totale. E anche quando fa capolino nelle loro improvvisazioni qualche eco di reminiscenze classiche eurocolte, è comunque il blues primigenio a riportarli sulla retta via del jazz. Lee e Bennie non si risparmiano, al punto da dare tutto come se non ci fosse un domani. Le loro esibizioni sono un esempio di come “donarsi” al pubblico, di come esaurire nello spazio di un concerto tutte le proprie potenzialità espressive, sapendo di poter contare sull’appoggio incondizionato di un pianista fantastico che sa esattamente quali accordi suggerire, quali note mettere sul piatto e servire ai solisti: quell’Harold Mabern che sarebbe ora di rivalutare come merita; e su 2 fuoriclasse quali Merrit, qui alle prese con un 1° prototipo di contrabbasso elettrico; e Rocker, esemplare sui piatti e magistrale sui tom, raro esempio di batterista che non solo accompagna ma interagisce e dialoga alla pari utilizzando tutta la gamma percussiva di cui dispone.

Siamo alle prese con un album che descrive al meglio il Blue Note sound: quel particolare tipo di jazz nato alla fine degli anni 50 in cui i musicisti neri si riappropriano delle loro radici africane e del blues, innestandoli sulle istanze bop e creando un suono denso, corposo; un magma di emozioni e finezze stilistiche intriso di passione, di cuore, di anima, di groove e di orgoglio nero che diventa musica dal fascino irresistibile. Brani come Nommo, Absolutions, Neophilia, Peyote (in alcuni punti quasi rock), Speedball (in cui Jack DeJohnette sostituisce Rocker alla batteria e la musica si fa più coraggiosa, più aperta verso soluzioni modali) e come la riproposizione del classico morganiano The Sidewinder, che qui viene eseguito in modo esaltante (12 minuti e 56 secondi di pura estasi sonora, dialogo serrato fra tromba e sax), sono solo alcuni dei momenti magici di questo box rimasterizzato in modo esemplare.

Accompagnato da un accurato booklet fotografico e da note interne con tanto di interviste ai protagonisti, The Complete Live At The Lighthouse consente di riportare alla luce un artista dimenticato e trascurato come Lee Morgan, morto a 33 anni per mano della sua compagna che lo uccide, per immotivata gelosia, con 2 colpi di pistola all’uscita dal club nel quale ha appena terminato di esibirsi. Un musicista che dall’hard bop si stava spingendo verso un jazz più contemporaneotemerario. Ci rimangono impressi il suo sorriso, le sue giacche di tweed, le sue camicie, la sua arte, la sua musica, i suoi assoli mozzafiato, i suoi dischi e questo live che ci dà l’esatta misura di quanto Edward Lee Morgan, da Philadelphia, avrebbe ancora potuto darci.