Il periodo che va tra la fine degli anni 60 e la metà dei 70 si è rivelato indimenticabile per la musica rock. Perfino migliore rispetto alla fase pionieristica dei grandi gruppi storici, se non altro per la varietà di scelte che consentiva: fra queste la contaminazione del rock con il jazz, vale a dire la fusion.

Responsabile (se così si può dire) di questa nuova fase è Miles Davis, che nel 1969 pubblica l’album In A Silent Way circondandosi di musicisti sia bianchi sia neri, giovani e di straordinario valore: il chitarrista John Mc Laughlin, il sassofonista Wayne Shorter e un trio di tastieristi destinati alla leggenda: Chick Corea, Herbie Hancock, Joe Zawinul.

Pare che nelle esibizioni dal vivo degli anni precedenti si percepisse già aria di cambiamento, ma di fatto In A Silent Way apparve come la novità assoluta. Frutto di un’evoluzione musicale, o furbo ammiccamento al genere commerciale? Miles Davis dichiarò di aver scelto questa nuova strada per il semplice motivo che aveva saputo quanto guadagnava Sylvester Stewart alias Sly Stone con il suo funky rock. Ma è lecito nutrire qualche dubbio: Miles era in primo luogo un grande musicista, ma anche un individuo poco gradevole e piuttosto “attaccato ” ai soldi.

Dunque, se si ascolta il lungo brano della prima parte del disco, Shhh Peaceful, con quella liquida atmosfera data dal piano elettrico e il tappeto sonoro degli altri strumenti a far da base alla lirica tromba davisiana, si comprende che è arte, puro jazz con strumenti elettrici e non semplicemente denaro. Anche perché, tutto sommato, siamo piuttosto lontani dallo stile ritmico di Sly Stone, che fra l’altro poco dopo l’uscita di In A Silent Way avrebbe “incendiato” il Woodstock Festival.

La storia, però, ci dice che la vera e propria nascita del rock jazz si è concretizzata con il successivo Bitches Brew, doppio Lp che si fa notare anzitutto per la bellissima copertina “afro “; e poi per la qualità della musica, seppure più complessa rispetto a quella del disco precedente. Bitches Brew ha fatto gridare allo scandalo certi puristi del jazz, altrettanti al miracolo ed è stato accolto bene dagli adepti del rock. Se ascoltiamo la lunghissima Pharaoh’s Dance, ci troviamo infatti immersi in un’improvvisazione jazzistica dove evoluisce con tonalità cangianti la tromba di Miles sostenuta, però, dal ritmo fondamentalmente rock, sotterraneo e vibrante degli strumenti elettrici.

Ritmo che si accentua ancora di più in Spanish Key, brano dal grande virtuosismo trombettistico oltre che palestra di assoli di piano e di chitarra. A proposito di quest’ultima, tutto si poteva dire di Miles Davis tranne che non fosse un talent scout. Se nell’album precedente aveva infatti valorizzato il giovane batterista Tony Williams, in Bitches Brew è John Mc Laughlin a sbizzarrirsi nel brano eponimo.

C’è invece chi ha ritenuto A Tribute To Jack Johnson, colonna sonora del documentario sul primo, grande pugile nero, addirittura superiore a Bitches Brew. Di sicuro, basata com’è su 2 lunghe suite, è una soundtrack che lascia ampio spazio al virtuosismo, ma anche a un afflato ritmico molto rockeggiante. A distanza di oltre 50 anni è difficile fare una graduatoria; ed è tutt’altro che facile giudicare ad esempio un album dal vivo come Live Evil, che temo sia nato per “monetizzare ” il momento favorevole. La lunga suite Sivad appare piuttosto improvvisata, comunque più vicina al jazz che al rock, con momenti rhythm & blues, altri decisamente funky e altri ancora piuttosto lirici.

In definitiva un ottimo lavoro, anche se appare sempre più evidente una caratteristica che scandalizzò, all’epoca, coloro che seguivano Davis: il suono della sua tromba stava diventando sempre più “sporco ”, molto vibrato, lontano dalla purezza cristallina delle sue incisioni degli anni 50.

Fra il 1969 e il 1972, Miles è comunque un vulcano: cerca una collaborazione con Jimi Hendrix (fallita per la scomparsa del chitarrista) e si dimostra, ancora una volta, un grandissimo valorizzatore di talenti: Joe Zawinul, Chick Corea, Keith Jarrett, Herbie Hancock, John Mc Laughlin, Tony Williams, Billy Cobham. Partecipa al Festival dell’Isola di Wight, i suoi dischi vendono ma la critica inizia a demolirlo. Fra il 1972 e il 1975 On The Corner, In Concert e Get Up With It – trascurando Big Fun, sconfessato per via di registrazioni scartate in precedenza – hanno infatti goduto di recensioni tutt’altro che benevole e il trombettista si è ritirato dalle scene (anche per vari problemi di salute e dipendenza da alcol e droghe) dal 1975 al 1980.

A distanza di mezzo secolo, ci si domanda se quei dischi dei primi anni 70 erano così brutti: ostici sì, per via di composizioni spesso lunghissime, ma dove si possono individuare linee ritmiche ben precise che rimandano a un funky e a un rhythm & blues oscuri e metropolitani. Per valorizzarne gli spunti migliori, se ne potrebbe proporre una sorta di antologia ridotta. Vi consiglierei allora l’ascolto di Black Satin, da On The Corner; di Honky Tonk e dell’atmosferica Calypso Frelimo, da Get Up With It.