C’era una volta – 60 anni fa, più o meno – una Londra che oggi non c’è più. E c’era Les Cousins (“I Cugini ”, in francese, forse un omaggio al film di Claude Chabrol), un minuscolo locale che a metà anni 60 divenne la mecca di musicisti – cantanti, cantautori, chitarristi – determinati a cambiare la storia del folk, del blues e della musica acustica.

Carnaby Street e il Palladium Theatre, Mary Quant e la Beatlemania, stavano lì a pochi isolati di distanza da quell’edificio nascosto in mezzo al quartiere bohémienne e a luci rosse di Soho; ma quello era proprio un altro mondo, popolato da qualche venerabile maestro e da tanti giovani squattrinati con gli occhi stropicciati per le troppe notti insonni, il fisico smagrito dai pasti saltati, i capelli arruffati e il maglione a girocollo. Al numero 49 di Greek Street c’era un ristorante francese (poco dopo convertito alla cucina greca) che nell’angusto scantinato ospitava un piccolo club aperto nell’aprile del 1965 dal figlio dei proprietari, Andy Matheou; e che dopo un paio d’anni trovò la sua configurazione definitiva: un ridottissimo palco al centro circondato da banchi da chiesa su cui prendevano posto gli spettatori. A quelle messe laiche officiate dai nuovi sacerdoti della musica tradizionale, assisteva una congregazione di fedeli disposti a fare le ore piccole per gustarsi gli allnighters, gli spettacoli in cui diversi artisti si alternavano al microfono fino alle prime ore del mattino.

Di questo demi-monde antico e sotterraneo e dei suoi eroi raccontano i 3 Cd di Les Cousins e le ricchissime note del libretto redatte da Ian A. Anderson, quasi omonimo del leader dei Jethro Tull, editore/direttore della rivista fRoots (Folk Roots) e a sua volta cantautore folk di belle speranze che lì si esibì intrecciando stretti rapporti con gli altri accoliti. Nel compilare la scaletta di 71 pezzi tutti già editi ma in alcuni casi di difficile reperibilità, non poteva che cominciare dall’artista simbolo del locale, quasi una mascotte che ne accompagnò l’intera e breve esistenza: lo scozzese Bert Jansch, «il Jimi Hendrix della chitarra acustica» (parola di Neil Young) che con l’amico John Renbourn avrebbe creato un sodalizio storico da cui sarebbero nati i Pentangle (qui li si ascolta anche insieme in un brano non casualmente intitolato proprio Soho).

Il 1° discepolo del pioniere Davy Graham (gustatevi il suo esotico “assaggio di Tangeri ” in Maajun); il 2° allievo di Wizz Jones, innovatori e incomparabili maestri dello strumento a 6 corde così come Martin Carthy, qui presente con un classico registrato insieme a Dave Swarbrick, il futuro violinista dei Fairport Convention. In tanti avrebbero preso nota, perpetrando anche furti più o meno espliciti: da Jansch ricalcò i suoi primi esperimenti acustici Jimmy Page (Black Mountain Side), a Carthy scippò l’arrangiamento di Scarborough Fair Paul Simon, protagonista di una prima versione di I Am A Rock ancora priva della voce angelica di Art Garfunkel in rappresentanza di un non esiguo contingente americano che dalla capitale inglese venne allora accolto a braccia aperte.

Ne fanno parte Spider John Koerner, il discepolo di Charley Patton con le sue chitarre a 7 o 8 corde; il “sindaco di MacDougal Street Dave Van Ronk; il giovane e fascinoso Tom Rush, che alternava pezzi suoi a quelli degli ancora sconosciuti Joni Mitchell, James Taylor e Jackson Browne; i tormentati, dannati e talentuosi Jackson C. Frank e Tim Hardin (con la versione originale della famosissima If I Were A Carpenter); la giovane blues woman nera Dorris Henderson (in coppia con Renbourn); la celebre Julie Felix, che in Inghilterra trovò fortuna anche come presentatrice televisiva e Derroll Adams, il “banjoista zen ” idolo di Donovan. Quest’ultimo, etichettato suo malgrado come il “Dylan scozzese ”, in Sunny Goodge Street canta di una strada distante ½ miglio e una fermata di metro da Les Cousins, mentre si allena a diventare una star alla pari di Al Stewart (Manuscript precede di 6 anni The Year Of The Cat), Mike Oldfield (qui ancora in duo con la sorella Sally nei Sallyange) e Cat Stevens (2 selezioni: The Tramp e Portobello Road, ode a un altro centro nevralgico alternativo della Londra di allora).

Bert Jansch
(1943-2011)

Pronti a entrare in competizione per il titolo di re del “progressive folk ” e a spiccare il volo verso il circuito dei rock club e delle università, ecco invece singer songwriter in rapida evoluzione quali John Martyn e Roy Harper (con canzoni riprese dai rispettivi album d’esordio), Ralph McTell, Michael Chapman e Keith Christmas, mentre l’introverso Nick Drake (sempre magnifica e commovente la sua Northern Sky) solo molti anni dopo la prematura scomparsa si guadagnerà l’immortalità e l’affetto di un pubblico intergenerazionale. Sono tutti virtuosi, in modi diversi, della chitarra acustica mentre sulla sola forza delle voci si basavano i 4 Watersons e i 3 Young Tradition, capaci di rendere cool e inaspettatamente moderno anche il canto a cappella tradizionale e quelle vecchie ballate che parlavano di riti di passaggio, di cambio delle stagioni, di omicidi, macabre allegorie, tragedie marine.

Erano gruppi sessualmente misti, mentre le canzoni racchiuse in Les Cousins ci ricordano che anche in un ambiente inequivocabilmente maschilista come quello c’erano donne volitive in grado d’imporsi autonomamente con il loro talento: le veterane Nadia Cattouse (nata in Belize e famosa anche come attrice) e la regina Shirley Collins (tuttora in attività: Nottamun Town, che Dylan rielaborerà liberamente per Masters Of Wars, arriva dall’epocale e programmatico Folk Roots, New Routes registrato nel 1964 con Graham); Beverley (futura signora Martyn) e Jo Ann Kelly, la first lady del British Blues; le elusive desaparecidas Shelagh McDonald e Bridget St. John (ricomparse quando nessuno si sarebbe più aspettato di rivederle su un palco); Maddy Prior con Tim Hart, futuri cofondatori degli Steeleye Span e le 2 icone più celebrate: Anne Briggs, nomade e indipendente; e l’indimenticabile Sandy Denny con 1 pezzo dell’allora boyfriend Frank (You Never Wanted Me) inciso poco dopo aver lasciato gli Strawbs (che chiudono il programma con Pieces Of 79 And 15, dal loro album di debutto del 1969).

Non ci sono steccati ma solo orizzonti infiniti, lungo un tragitto “a zig zag ” che include padri del blues revival quali Alexis Korner e Long John Baldry; e del Brit folk quali A.L. Lloyd e Alex Campbell, ma anche un bel manipolo di anticonformisti e cavalli pazzi: la Incredible String Band e il suo contraltare irlandese Dr. Strangely Strange, la Third Ear Band e Kevin Ayers fino a Ron Geesin, rumorista e sperimentatore poi a fianco dei Pink Floyd di Atom Heart Mother e di Roger Waters. Inglesi e irlandesi (Sweeney’s Men, Tir Na Nog); scozzesi (un altro maestro chitarrista come Hamish Imlach) e americani; specialisti della slide quali Sam Mitchell, che sarebbe finito poco dopo alla corte di Rod Stewart; e fini interpreti del ragtime con John James; liutai autodidatti e inventivi come Dave Evans e nomi che vale assolutamente la pena di riscoprire (i Dando Shaft, i Piccadilly Line).

Sono loro gli abituali frequentatori di un posto che, scrive Anderson nelle sue note conclusive, merita di essere ricordato al fianco dei jazz club americani che negli anni 40 diedero origine al be bop e ai leggendari locali del Greenwich Village newyorkese dei primi anni 60. Importante per la storia del rock britannico quanto il Cavern di Liverpool, azzarda Stewart: magari un’esagerazione, anche se per tanti formidabili artisti più o meno baciati dalla fortuna e per pochi fortunati spettatori, gli stretti e ripidi gradini che portavano a Les Cousins furono come una scala al contrario verso il paradiso, qualche metro sotto terra.