«Se n’è andato con un bang, non con uno splash», commentava il personaggio interpretato da William Hurt ne Il Grande freddo (1983) a proposito del suicidio del compagno d’università Alex per il cui funerale, nel film diretto da Lawrence Kasdan, i suoi vecchi amici si ritrovavano a ragionare su passato e presente.

Come un involontario suicidio (commerciale) e come un funerale, in fondo, si potrebbe anche descrivere In The Studio, ultimo album degli Specials – ribattezzatisi Special AKA dopo la disintegrazione del gruppo originale – al cui relativo “splash ” in classifica si contrappose il “bang ” di (Free) Nelson Mandela, ultima grande hit della band di Coventry e contagiosa protest song che nel 1984 rimise il dito sulla piaga di un’annosa questione internazionale: la detenzione ultraventennale dell’ex leader dell’African National Congress sudafricano incarcerato nel 1962 dal regime dell’apartheid con l’accusa di attività sovversive contro il Paese. Margaret Thatcher aveva definito l’ANC un’organizzazione terroristica e il leader degli Specials, Jerry Dammers, sentiva che era arrivato il momento di fare ascoltare all’opinione pubblica una voce controcorrente.

Special AKA

Ne sapeva poco di Mandela, prima di assistere nel 1983 a un concerto organizzato all’Alexandra Palace di Londra per celebrarne il 65° compleanno, ma le battaglie contro il razzismo e la segregazione erano da sempre in linea con il suo pensiero. 5 anni prima, del resto, proprio lui era stato il fondatore dell’etichetta discografica indipendente in bianco e nero 2 Tone Records, che contaminando lo ska e il rocksteady giamaicano con il pop e con il punk britannico era riuscita a conquistare l’affetto di diverse subculture proletarie, degli skinhead delle periferie e dei rude boys immigrati dalle Antille.

Era un momento difficile, turbolento e problematico, quello. Non solo per l’Inghilterra e per il mondo, ma anche per lo sdentato organista e per la band di cui era il capitano, dopo l’ammutinamento di 3 elementi chiave – Terry Hall, Neville Staple e Lynval Golding – intenzionati come Fun Boy Three a perseguire una carriera di successo nel pop senza curarsi dell’agenda sociopolitica tanto cara al vecchio amico agit-prop, che ora si circondava di una ciurma non meno eterogenea e indisciplinata: ne facevano parte un giovanissimo cantante di pelle nera e di bell’aspetto reclutato anche lui a Coventry, Stan Campbell; e la riccioluta Rhoda Dakar da Brixton, già vocalist delle Bodysnatchers e artista in forze alla scuderia 2 Tone a cui Dammers aveva affidato il ruolo di cantante solista nel singolo di debutto degli Special AKA, The Boiler, terrificante reportage in musica di uno stupro di cui qualche anno prima era stata vittima una sua amica. Della vecchia guardia, restava a tempo pieno a fianco del leader solo il batterista John Bradbury.

Come tenere in riga e coagulare quel collettivo fluttuante e anarcoide, in modo da fissare su nastro nel minor tempo possibile un pezzo dedicato a un tema ancora di scottante attualità come la persecuzione politica perpetrata ai danni di Mandela? Dammers individuò la persona giusta in Elvis Costello, produttore nel 1979 del 1° e mitico album degli Specials; e prendendo spunto da un’altra chiamata alle armi come Let’s Clean Up The Ghetto dei Philadelphia All Stars decise di convocare in studio un nutrito numero di ospiti fra cui il transfuga Golding («come atto di buona volontà nei suoi confronti»), 2 ragazze (Molly e Polly Jackson) che Bradbury aveva conosciuto una sera in un bar di Camden; Ranking Roger e Dave Wakeling dei Beat; il chitarrista degli Swinging Cats, John Shipley, il bassista Gary McManus (nessuna parentela con Declan/Elvis); una sezione fiati con tromba, sassofono, flauto e penny whistle e le coriste Claudia Fontaine, Caron Wheeler e Naomi Thompson alias le Afrodiziak, che già avevano collaborato in tempi recenti con lo stesso Costello e con i Jam di Paul Weller.

Frequentatore abituale del Gossip, un club londinese in cui si ascoltava regolarmente musica africana, Dammers aveva in testa 1 motivo che mischiava i sapori del Continente Nero a quelli dell’America Latina, «una melodia molto semplice basata essenzialmente su 3 note – do, re, mi – con i ricami di ottoni tutto attorno». «Scrivere la melodia prima del testo si dimostrò fondamentale», ha ricordato in seguito Dammers. «Se di Mandela avessi saputo qualcosa in anticipo, probabilmente mi sarebbe venuto in mente un pezzo più serio da strimpellare con una chitarra acustica».

Dalla sua intuizione prese forma invece una canzone gioiosa e solare, scoppiettante di contagiosa energia e di buone vibrazioni, promossa da un famoso videoclip in cui davanti ai musicisti sul palco giovani ballerini si scatenavano in passi da jazz dance. «Ghost Town [grande successo degli Specials che nel 1981 arrivò al N°1 in classifica] era una canzone malinconica con un middle eight allegro. Nelson Mandela era l’esatto opposto: 2 momenti di desolazione suonati dagli ottoni che contrastavano con una melodia ritmata e festosa». Un’altra idea vincente fu quella di aprire il pezzo con l’inciso, cantato a cappella e in stile gospel dalle Afrodiziak («Ci arrivammo in seguito, e forse è anche leggermente fuori tono rispetto al resto della canzone: ma stranamente sembra servire in qualche modo a sollevarne lo spirito quando entra in gioco la linea melodica principale»).

Quando uscì come singolo, nel marzo del 1984, il brano venne subito bandito in Sud Africa dove però la popolazione di pelle nera iniziò a cantarla alle partite di football e in occasione di altri raduni pubblici; diventò nel frattempo un successo di dimensioni internazionali e Dali Tambo, figlio di Oliver, presidente esiliato dell’ANC, contattò Dammers per convincerlo a creare una filiale britannica dell’associazione Artists Against Apartheid. Nel 1988, in occasione del 70° genetliaco di Mandela, ne venne registrata una nuova versione e quando il leader sudafricano, nel febbraio del 1990, venne finalmente scarcerato Jerry si rese conto di avere fatto qualcosa d’importante: se la musica non poteva cambiare il mondo, in quella circostanza era per lo meno servita a risvegliare le coscienze.

L’album In The Studio non ebbe altrettanta fortuna: forse perché 5 delle sue 10 canzoni erano già uscite su 45 giri o 12 pollici; forse perché il suo mood era decisamente più pessimista. Musica ritmata e ballabile, certo, che nelle migliori tradizioni della casa mescolava ska e rhythm & blues, pop e jazz, dance e cocktail music, ma con tonalità a volte dissonanti e sequenze d’accordi inusuali, fotografando un mondo livido e avvelenato, nel Regno Unito e nel resto del mondo, dal razzismo e dalla violenza, dalla povertà e dalla disoccupazione, dalle guerre e dai conflitti sociali. L’ossessivo riff in 5/4 e la melodia dolente di War Crimes denunciavano la guerra in Libano iniziata da Israele e i massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila. Il dub reggae pigramente dondolante di Racist Friend, con il baffuto Dick Cuthell (anche coproduttore del disco) al flicorno e il giamaicano d’origine cubana Rico Rodriguez al trombone, era un piccolo pamphlet contro ogni forma di xenofobia (“Se hai un amico razzista ” cantavano Campbell e Dakar, “è arrivato il momento che tu ponga fine a quella amicizia, si tratti di tua sorella, di tuo fratello, di tuo cugino o della persona che ami ”).

La sinistra soul disco di Bright Lights (che citava nel testo Colin Roach, un ragazzo nero di 21 anni morto misteriosamente nel 1983 nella stazione di polizia di Stoke Newington) e la spettrale melodia arabeggiante di Lonely Crowd, raccontavano l’amara disillusione di chi a Londra cercava occasioni di riscatto e di svago per trovarsi invece circondato da squadroni di polizia a presidio delle strade e da una folla solitaria in cui tutti avevano perso la capacità di comunicare; la melodia svagata e ondulata di Housebound e le atmosfere esotiche di Out On The Tiles, descrivevano l’inquietudine di chi si barricava in casa per paura ma che al tempo stesso fra le mura domestiche si sentiva in gabbia. Anche l’escapismo alcolico era una piaga sociale, come Dakar denunciava in Alcohol trasformandosi in una convincente torch singer da jazz club fuori orario alle prese con i sintomi della dipendenza e della astinenza forzata (“Tremi e cominci a sudare ”).

In The Studio era un tazebao colorato che dipingeva una realtà distopica e angosciante, ma siccome Dammers era (ed è) un uomo dotato di senso dell’humour oltre che d’inguaribile ottimismo, non mancavano qualche piccolo squarcio di luce e un pizzico di tagliente sarcasmo: nell’exotica a tinte caraibiche di What I Like Most About You Is Your Girlfriend, ultimo singolo pubblicato in assoluto dagli Special AKA e dalla Two Tone nel settembre del 1984, era lui stesso a cantare in falsetto vestendo i panni del tizio che al bar attacca discorso con un altro avventore con la sola intenzione di fare colpo sulla sua ragazza (e nel surreale videoclip promozionale quello di un improbabile astronauta piombato chissà da dove in un locale notturno); con l’esuberante Break Down The Door, in fondo al disco, arrivava invece un messaggio di speranza, l’esortazione a sfondare le porte che ci tengono intrappolati.

Perfezionista maniacale e leader alquanto dispotico, Jerry prolungò all’infinito le session fermandosi solo quando il debito che aveva contratto nei confronti della casa discografica finanziatrice (la Chrysalis) rischiava di sommergerlo; intanto Rhonda finì sull’orlo di una crisi di nervi e ancora oggi non parla volentieri di un’esperienza da cui è rimasta a lungo traumatizzata. Sono passati 40 anni e Dammers non ha mai più registrato un album, tenendosi sempre alla larga anche dalle reunion degli Specials. In The Studio rischia così di diventare il suo ultimo atto compiuto in ambito discografico, oltre che un testamento significativo. L’essenza del pensiero e del modus operandi di un attivista di fede socialista per cui il desiderio d’intrattenere un vasto pubblico si è sempre sposato alla volontà di trasmettere messaggi socialmente utili con un’ambizione mai abbandonata: «Portare la musica di protesta nelle classifiche pop».

Special AKA, In The Studio (1984, 2 Tone Records)