C’è stato un periodo, all’incirca tra il 1968 e il 1975, in cui la musica europea che era nata grazie all’influenza del rhythm and blues, del jazz americano e dei gruppi anglosassoni raggiungeva un’originalità espressiva e una qualità forse mai più toccate. Non solo. Quella musica, nei suoi vari esponenti, riusciva inoltre a raggiungere buone fette di pubblico e anche quando diventava fenomeno di nicchia, non lasciava tracce transitorie. Tant’è vero che quei musicisti che sono sopravvissuti suonano ancora e possono contare su uno zoccolo duro di fans (ahimè invecchiati) disposti ancora ad ascoltarli. Se le punte estreme del Progressive si sono estinte per insopprimibili egocentrismi (vedi Yes) o causa morte prematura (Keith Emerson e Greg Lake), il filone forse più originale ha resistito ancora o l’ha fatto fino a pochi anni fa. Ho scoperto infatti che i francesi Magma, uno dei gruppi più originali che abbia mai ascoltato, erano ancora vivi nel 2017: perciò credo valga la pena ripercorrerne la storia negli anni, i primi ’70, in cui hanno avuto maggiore successo. Sono nati dalla mente pirotecnica di Christian Vander, batterista di formazione jazz ma dalla cultura musicale vastissima e non solo. Come Stéphane Mallarmé, poeta del Simbolismo francese, si era arrovellato nella composizione del libro totale, così Vander ha cercato la nota totale: quella che secondo lui racchiudeva il senso dell’universo. C’è da dire che una ricerca del genere ha accomunato raffinatissimi musicisti già dagli Anni ’60: partendo forse dai Beach Boys di Good Vibrations, passando attraverso il John Coltrane di Ascension, per finire al sogno della Musica Totale. Utopia? Sicuramente. Ma nel coltivarla, Vander fu il più estremo perché non si limitò a comporre e a suonare, ma creò un mondo parallelo intorno alla sua musica incentrato sul pianeta Kobaia, luogo di fuga da una Terra diventata troppo malvagia; e poi concentrò l’attenzione sul profeta Nebehr Gudahtt, che avrebbe condotto l’umanità a salvezza proprio su quel pianeta. Il progetto si sviluppò con una serie di incisioni a base di testi in kobaiano, lingua creata da Vander che tentava di ispirarsi a un mitologico idioma primitivo universale, una sorta di compendio delle lingue nordiche. E in questo ultramondo, nella sua immaginazione, si sarebbe celato lo Zehul, ovvero ciò che tutti i musicisti stavano cercando: la nota universale primigenia, il compendio dell’intera musica.
I Magma ruotavano attorno alle esigenze del leader, tant’è che l’unica costante dei loro dischi è il fondatore. Se poi si va a vedere cosa suonavano i vari musicisti, abbiamo la conferma della particolarità di questa band: a parte la sezione ritmica e la chitarra, c’è grande spazio per i fiati e le voci perché, fondamentalmente, la concezione di Vander oscilla fra l’orchestra classica e la big band jazzistica. Musica sofisticata e non facile? Certamente. Tuttavia l’approccio nel primo album – l’ambiziosissimo doppio Lp intitolato Magma – con il pezzo Kobaïa, è accattivante: si tratta di un brano molto ritmato dal piano elettrico, con le voci in perfetta sintonia dove (costante di tutta la loro produzione) non conta la dimensione solista quanto quella polifonica. La struttura dei loro pezzi vuole, naturalmente, la dimensione lunga: tant’è che 3 composizioni vanno dagli 8 ai 12 minuti. Per certi versi ancora più difficile è il secondo disco – con un titolo stranamente comprensibile, 1001 Centigrades – dove non è prevista la chitarra e l’ascoltatore si trova immediatamente sbattuto contro una suite di oltre 21 minuti, Riah Sahiltaahk, dove è più facile trovare riferimenti alla musica classica contemporanea che al rock; mentre Iss lansei Doia dimostra tutto l’amore di Christian Vander per il free jazz, essendo strutturato in modo tale da consentire improvvisazioni a non finire. Probabilmente, anche per questo, nessun pezzo è inferiore agli 8 minuti. Ancora più interessante è il terzo Lp, forse il più famoso e certamente il più bello, intitolato Mekanik Destruktiw Kommandoh. Intanto i brani, che pur essendo lunghi non raggiungono mai le dilatazioni di una suite; in secondo luogo, le voci assumono una dimensione melodica che li rende più accattivanti. Come ha scritto Maurizio Baiata nel ’74 in un pionieristico articolo sul settimanale Ciao 2001, la polifonia vocale rimandava a Carl Orff alludendo pure al fatto che essendo quest’ultimo considerato filonazista, lo fossero anche i Magma. Equivoci di un’epoca esageratamente politicizzata: in realtà né Orff venne compromesso col nazismo e tantomeno i Magma furono neonazisti. Sempre su Ciao 2011, Enzo Caffarelli annotò che non c’era una grande varietà fra i brani. Se è vero dal punto di vista che, in fondo, si tratta di un concept album, è musicalmente sbagliato perchè, ascoltandolo, non si può non notare che sia il disco più vario prodotto dai Magma fino a quel momento; sebbene in alcuni brani ci sia un giro di pianoforte identico a fare da collegamento.
Un pezzo come Hortz fur Dehn Stekehn West, dove al possente ritmo iniziale fa da contraltare un dialogo vocale che appartiene più alla lirica che al rock, non somiglia più di tanto all’etereo Ima Suri Dondai dalle bellissime voci femminili; ma entrambi non somigliano (se non per alcune note d’accompagnamento del piano) a Da Zeuhl Wortz Mekanik, dove Vander riesce a fondere Carl Orff e l’epica di certi inni nazionali, con un sottofondo di chitarra che starebbe benissimo in terra californiana. In seguito venne pubblicato anche in Italia Kohntarkosz, ma la mente funambolica di Vander sfornava in contemporanea un altro disco, Wurdah Itah, inizialmente come colonna sonora di un film ma che poi finì per essere parte della trilogia chiamata Theusz Hamtaak. Un album realizzato solo con la base ritmica del gruppo e sconosciuto fino alle ristampe degli Anni ‘80 poiché i Magma, da Kohntarkosz in poi, diventano ancor più fenomeno di nicchia che trascende qualsiasi influenza rock. In questo disco si ritorna alla dimensione suitistica: inizio possente, impatto musicale epico, meno spazio alle voci, ritmo meno incalzante. Nel complesso, per rendere l’idea, un incrocio fra Igor Stravinsky, la vocalità di certi autori di classica contemporanea un po’ alla Luigi Nono e un po’ alla Karlheinz Stockausen, un certo jazz elettrico. Va da sé che una musica così troverebbe più spazio nei conservatori anziché nelle arene rock; e pur avendo suonato in templi della musica come l’Olympia di Parigi ed essendo tuttora riconosciuto in Francia come un musicista geniale, Vander ha proseguito sotterraneamente la propria ricerca seguito da una schiera di seguaci per i quali ha continuato negli anni una discreta attività concertistica che dura tutt’oggi.