Sapevamo da tempo che il male era di quelli che non perdonano. Ci eravamo illusi, avendolo visto accanto a Herbie Hancock, nuovamente su un palco, a suonare dentro il suo sax con la consueta foga e la straripante personalità. Ma purtroppo il 13 gennaio 2007 Michael Brecker ci ha lasciato per sempre, e con lui se n’è andata una bella fetta della nostra vita.

Sì, perchè è stato lui a farci innamorare del jazz elettrico, a farci scoprire la magia di questa musica invogliandoci a scovarne le radici, le origini, i padri. Michael ci ha tenuto compagnia: in almeno 8 album su 10 prodotti negli Stati Uniti negli ultimi 30, era presente al tenore e il suo stile ha fatto scuola. Da Billy Cobham che lo lanciò definitivamente nell’Olimpo dei Grandi, a Frank Sinatra; da James Taylor (basterebbe il suo assolo in Don’t Let Me Be Lonely Tonight a inserirlo fra gli immortali), a Bruce Springsteen (è proprio lui a suonare in Born To Run e non Clarence Clemons, come tutti hanno rroneamente creduto); da Frank Zappa, a Chaka Khan; da Mike Mainieri, a Bill La Bounty; da Michael Franks (che gli dedicherà il brano Doctor Sax), ai suoi amati Steps Ahead.

Michael Brecker (1949-2007)

Debutta 19enne accanto al fratello Randy Brecker (trombettista di valore, con cui formerà una line up fiatistica senza rivali) nell’album Score (1969) prodromo del grande jazz elettrico che lo vedrà protagonista assoluto, anche se i critici “togati“, quelli che sono convinti di possedere “il verbo” e oggi osannano Uri Caine o John Zorn, lo osteggiavano già negli anni 60. Sbagliavano, perché fin da allora Michael andava ascoltato con attenzione e gli si potevano tranquillamente perdonare le frequentazioni rock e il suo lavoro in qualità di session man. I fatti parlano da soli: Brecker è ed è stato il più influente sassofonista dai tempi di John Coltrane (nemmeno lui piace ai critici della loggia del “jazz puro“…) e lascia dietro di sè una schiera straripante di epigoni. Proprio partendo dalla lezione di Trane, il suo suono ha fatto proseliti in tutto il mondo. Tant’è che oggi il sax tenore si suona sull’esempio di Michael Brecker. Chiedere a Joe Lovano o a Chris Potter, per conferme.

Michael e Randy Brecker

Comunque, commenti positivi li ha avuti quando uscì Cityscape di Claus Ogerman, in cui era il solista principe; o in 80/81 di Pat Metheny, in compagnia di colossi quali Charlie Haden, Jack DeJohnette e Dewey Redman; o quabndo dal vivo a Tokyo con gli Steps Ahead (supergruppo acustico in cui militava accanto a Mike Mainieri, Don Grolnick, Eddie Gomez e Steve Gadd) incise una memorabile versione di Not Ethiopia, esempio lampante del suo genio solistico. E tutti dovettero riconoscerlo straordinario musicista quando firmò il suo 1° album da leader, Michael Brecker, nel 1987: un pugno allo stomaco di chi lo considerava un musicista rock sopravvalutato. Dovettero confrontarsi, invece, con un capolavoro impreziosito da gioielli come The Cost Of Living, Nothing Personal, Choices, Syzigy e Original Rays. Da quel momento è nato il vero Brecker e tutti hanno scoperto la statura di un musicista che di controverso non aveva assolutamente nulla.

Poi sono usciti altri dischi straordinari, come quello in cui Mc Coy Tyner lo ha chiamato a coprire il ruolo che fu di John Coltrane; come Time Is Of The Essence (1999), che gli ha fatto coronare il sogno di farsi accompagnare nientemeno che dal batterista Elvin Jones; come Wide Angles (2003), per un ensemble allargato; fino all’ultimo canto del cigno, commovente, di Pilgrimage (2007).

Il tenorsassofonista in concerto col chitarrista Pat Metheny (1981)

Certo, qualche momento della sua straordinaria carriera che il saggio di Bill Milkowski, critico musicale della rivista DownBeat, esamina con perizia e con un affetto quasi reverente, non è degno di particolare attenzione. Nel suo libro intitolato Ode to a Tenor Titan. The Life and Times and Music of Michael Brecker, si parla ad esempio delle elucubrazioni di Michael all’EWI, lo strumento elettronico inventato appositamente per lui da Nyle Steiner, non ci ha suscitato grandi emozioni: ma ascoltate bene Beirut, tratto da Magnetic degli Steps Ahead (1986), o la versione di In A Sentimental Mood, e poi ne riparliamo. In quanti sarebbero riusciti dare un’anima a un glaciale sax elettronico?

Michael Brecker era un uomo sempre in anticipo sui tempi. Sempre ahead, appunto. Che non si curava delle critiche perché a lui importava sempre e comunque della musica: sia quando esplorava le possibilità del jazz elettrico, sia quando si esibiva in contesti strettamente jazzistici dove emergeva la sua immensa statura di solista; sia in ambito pop, dove non perdeva mai neppure un grammo del suo gusto e della sua personalità. Il mondo del sax tenore ha dipeso a lungo (e tuttora dipende) da Michael, dal suo suono così riconoscibile che gli ha fruttato milioni di fan sparsi nel mondo, che per lui nutrono ancora una venerazione assoluta. Che se possibile, dopo aver letto questo libro, aumenterà. E finalmente verrà ricordato come uno dei grandi “stilisti” che hanno fatto scuola.

Persona schiva, timida, modesta, non sapeva valutare il proprio genio e anzi, sorrideva spaventato quando gli ricordavi che era uno fra i pochi, autentici “grandi” di questa nostra musica. Ci manca tanto, Michael Brecker. Ma ogni volta che andremo a riascoltare quel suono penetrante, a volte lancinante, che scava nell’anima, che viene dalla pancia e che parla direttamente al cuore senza sovrastrutture, semplice ma al contempo raffinato, ci verrà in mente quel signore dinoccolato che quando imboccava il sassofono diventava un gigante.