Martha Wainwright non è una pop star, non è glamour, non ha un nuovo disco da promuovere, non ha una grande casa discografica alle spalle, non è famosa come suo fratello Rufus, non ha quasi mai frequentato l’Italia (si ricordano 1 showcase proprio a Milano, nel 2005, all’epoca dell’uscita del suo 1° album, 1 concerto a Catania nel 2010 e poco altro).

Così, quando dopo la brava Roberta Di Lorenzo sale sul palco nel suo abitino bianco in tulle, si trova davanti una settantina di persone anche se è prodiga di complimenti per chi è venuto a vederla, per la città che in giornata ha visitato da turista e per il luogo in cui è stata invitata a esibirsi, il magnifico Cortile delle Armi del Castello Sforzesco illuminato in modo suggestivo e in cui dal 21 giugno e fino al 10 settembre 2023 è in corso la rassegna Milano è Viva – Estate al Castello. Così vanno oggi le cose nel mondo della live music, più che mai polarizzato fra ammucchiate di massa (Coldplay, Harry Styles, Bruce Springsteen) e performance disertate da un pubblico distratto, a corto di soldi e dissanguato dai “grandi eventi ”.

© Alessandro Curadi

Gli assenti hanno sempre torto, si dice. E il detto vale anche stavolta poiché Martha è un personaggio carismatico, originale, con un retroterra da autentica folk singer bohémienne; l’arte e la canzone che le scorrono nel sangue e nelle vene: il padre, americano, è il caustico e raffinato cantautore Loudon Wainwright III; la madre, Kate, québécoise nata a Montreal e scomparsa nel 2010, un’icona del folk canadese/nordamericano di cui ha scritto pagine epocali insieme alla sorella Anna. Appartiene al suo, al loro repertorio la prima canzone in scaletta, I Am A Diamond, che Wainwright esegue da sola alla chitarra acustica mettendo subito le carte in tavola: grande pathos, una voce capace di spericolati saliscendi e fughe sul pentagramma che sembra seguire sentieri melodici, fraseggi e timing tutti suoi assecondando il feeling del momento. Come quella del fratello e di quei cantanti che sanno usare le corde vocali alla maniera di uno strumento jazz, un sassofono che da soprano diventa tenore variando registro, timbro e profondità.

Basterebbe quello a imbrigliare le orecchie degli ascoltatori più attenti, ma poi arriva a darle man forte una bella band di giovani musicisti, basso elettrico, batteria e tastiere (l’eccellente Edwin de Goeij), e il concerto si arricchisce di tante altre sfumature. Quando più avanti riprende un altro pezzo della madre, Tell My Sister, Martha spiega che cosa le differenzia e cosa ha imparato da lei: «Una volta nelle mie canzoni raccontavo tutto, e come mi ha detto anche il mio avvocato non è una buona idea. Pur cantando con grande intensità, mia madre invece sapeva lasciare il finale della storia in sospeso, velare la realtà, trattenere sempre qualcosa».

Lei, che ha una biografia piuttosto turbolenta e che agli esordi dedicò al padre un’inequivocabile Bloody Mother Fucking Asshole (più o meno “brutto stronzo figlio di puttana ”: in realtà un’invocazione di attenzione e di affetto, più che una invettiva), proprio come Loudon non ha mai avuto peli sulla lingua e anche di recente ha spifferato storie che potrebbe pentirsi di avere messo in piazza (Stories I Might Regret Telling You è il titolo di una sua recente autobiografia che – come ha confessato a un quotidiano – non avrebbe avuto il coraggio di scrivere se mamma Kate fosse stata ancora viva). Per evocare la figura del padre evita stavolta quel suo vecchio e controverso biglietto da visita scegliendo invece un brano più classico e composto ma altrettanto spietato e autobiografico scritto da Rufus, Dinner At Eight, proposto nella stessa emozionante versione voce & piano inclusa nell’edizione digitale deluxe dell’ultimo album Love Will Be Reborn, uscita in contemporanea al suo memoir.

Sul palco a volte sembra in trance, a tratti scossa da brividi elettrici. Racconta, cerca il dialogo, chiude gli occhi, sorride, getta indietro la testa, saltella, scalcia, ondeggia con la sua chitarra e guarda i musicisti cercando con loro un’intimità da club. Venature jazz, qualche melodia vagamente pop e ritmiche rock solcano anche il suo folk contemporaneo, ondivago e assolutamente personale che, spiega, in questo show traccia una sorta di retrospettiva della sua carriera tra flashback e balzi nel presente: si susseguono tanti bei titoli decorati di rose e di spine come Factory, Getting Older, Bleeding All Over You o le più recenti Love Will Be Reborn e Report Carduna canzone triste» nel cui testo le lacrime scorrono come un fiume); una movimentata Body And Soul e una Hole In My Heart – altri pezzi dell’ultimo album uscito nel 2022 – traboccante di sentimento, riflessioni più meditate che affrontano temi come la traumatica esperienza del divorzio e l’innamoramento in età matura («Quando hai dei figli stai più attenta alle parole che scegli perché hai paura di ferirli»).

I legami familiari sono un filo robusto che scorre per tutto il set; e così quel modo di cantare sciolto, spontaneo e senza filtri coltivato fin da bambina in tante riunioni di famiglia attorno a un pianoforte o a una chitarra: come in The McGarrigle Hour, registrato a nome di Kate e Anna proprio in una di quelle occasioni e da cui riprende Year Of The Dragon. È in quel contesto, probabilmente, oltre che in quasi 30 anni on the road, che ha perfezionato l’arte delle cover, specialità in cui non teme rivali: a Milano affronta con attenzione e delicatezza la ballad Take It With Me, «forse una delle più belle canzoni d’amore mai scritte» che Tom Waits pubblicò nel 1999 su Mule Variations; e nel bis strappa applausi con una straordinaria Dis, quand reviendras-tu? della leggendaria Barbara, chanteuse francese di origine ucraina: come fosse in un club di Montmartre, Martha la fa sua con piglio teatrale ma in assoluta souplesse, con impeccabile tecnica nel fraseggio e con passione, con perfetta aderenza al testo e assoluto controllo dell’emissione vocale. Solo per questa avrebbe meritato, eccome, una platea molto più numerosa di quei pochi che di questo show conserveranno un ricordo prezioso.