Ci sono artisti (pochi) che bisognerebbe fare di tutto per vedere in concerto almeno una volta nella vita: Caetano Veloso è sicuramente fra loro. Lo scorso 7 ottobre mi accingo dunque a prendere i 2 treni che mi portano a Parigi ad assistere al suo ultimo concerto europeo e all’unica data in Francia. Ah Paris, quel gâchis! Ci vado sempre meno volentieri, poiché ogni volta noto la sua grande bellezza deturpata e avvilita da brutture e comportamenti. Questo vale per tutte (o quasi) le grandi capitali, che sembrano sempre più un grande “Food festival ” permanente con i monumenti a fare da fondale.
Ma cosa c’entra, direte voi, questa osservazione sociale? C’entra eccome, perché per contrappasso di sopravvivenza culturale dovremmo cercare e spolverare la bellezza dovunque essa sia e non il contrario. Non sono estranei a ciò Caetano Veloso e il luogo del suo concerto: Le Grand Rex, il cine-teatro costruito nel 1932 la cui forma architettonica e i suoi decori non mancarono di suscitare clamore: da allora ha avuto molte vite e nel 2022, in occasione dei suoi 90 anni, è stato interamente rinnovato nello spirito degli arredi originali. Dato che il caso non esiste, non è un “caso” che Caetano che ha compiuto 81 estati (è nato in agosto) si sia esibito proprio qui, essendo lui stesso un monumento ben vivente della cultura.
Il Tour: S’intitola Meu Coco, ovvero “la mia testa” o nell’accezione più popolare “la mia zucca” ed è in gran parte focalizzato sui brani dell’omonimo disco di cui lui stesso dice: «Meu Coco è quello che c’è nella mia testa, ma è anche una riflessione sul fatto che il volto cambia a seconda dell’angolo e della distanza». Come la copertina dell’album pubblicato nel 2021 a 9 anni dal precedente, che mostra la sommità della sua testa riflessa all’infinito in uno specchio.
La Scena: Il palco del Rex è molto grande e il gruppo di giovani, straordinari musicisti guidati dal chitarrista Lucas Nunes (che è anche il co-produttore di Meu Coco) si posiziona lateralmente: a sinistra chitarra, basso e tastiere, a destra una miriade di percussioni possedute da 2 assatanati “batucaderos” dagli impronunciabili nomi. Al centro di questa cuspide minimalista, una sola postazione microfonica che verrà occupata da Sua Maestà Caetano Emanuel Viana Teles Veloso. La scenografia, anch’essa ultra minimalista, consiste in un’unica proiezione sul fondale di uno scomposto parallelepipedo, che cambierà con discrezione colore durante il concerto.
Caetano entra in scena e comincia subito a sciorinare i brani del suo disco, che esplodono con naturalezza in tutta la loro sottile potenza, appena intuita all’ascolto della registrazione. Tutta la sua carriera, lunga 50 dischi circa, è transitata alla continua ricerca di quelle che oggi si chiamano con un brutto termine “contaminazioni ”. Veloso, cioè, non ha mai esitato a soddisfare la sua grande curiosità musicale cercando e utilizzando sonorità atipiche per il mondo brasileiro. Il suono che irrompe dalla sua esibizione è funk, beat, jazz, batucada e grunge allo stesso tempo, mentre la sua voce unica e particolare è diventata negli anni ancora più bella, acquisendo una tonalità “polverosa” e grave che rende questo “crooner from outer space” ancora di più un bene prezioso per l’umanità.
La sua “intonazione assoluta” e la sua grazia innata, fanno sembrare facile e scorrevole la scrittura musicale che in realtà è di una rara, complessa modernità con echi, a volte, di dodecafonìa. Durante il concerto mi sono reso conto delle incredibili affinità di Caetano con Franco Battiato: la medesima (appunto) “intonazione assoluta”, la stessa grazia e leggerezza misurata nel gesto, la stessa curiosità per ogni genere di musica e anche i micro passi di danza che tutti e 2 praticano, fra applausi scroscianti. Peccato non poterli vedere insieme, almeno in questa dimensione.
Un solo rammarico – Malgrado il portoghese sia una lingua romanza derivata direttamente dal latino volgare come lo spagnolo il francese e il rumeno; e di conseguenza dovrebbe essere almeno in parte a noi intelligibile, si rivela al contrario ostica nella sua forma parlata e scritta. Un grande peccato non comprendere la bellezza della sua poetica, importante tanto quanto la sua musica.
Permettetemi di concludere questo parziale “excursus” nel mondo di Caetano Veloso ricordando con un episodio della sua lotta politica come egli sia da sempre un difensore delle libertà e dei diritti umani, usando la sua musica come arma non violenta contro i dittatori, palesi o occulti, ma pur sempre codardi e imbecilli. Nell’ottobre del 1968, lui e Gilberto Gil si esibiscono al club Sucata di Rio de Janeiro con la poesia-bandiera Seja marginal, seja herói (Essere emarginato, essere eroe) di Hélio Oiticica esposta sul palco.
Il giornalista Randal Juliano di RecordTV, diffonde la notizia secondo cui Caetano e Gil avevano cantato l’inno nazionale brasiliano come parodia sovversiva. I 2 vengono arrestati senza processo il 27 dicembre 1968; e il 23 gennaio 1969 Veloso viene interrogato dal maggiore Ferreira, che gli chiede se avesse intonato l’inno sulla melodia di Tropicália: al che il musicista risponde che sarebbe stato impossibile, dato che i versi dell’inno brasiliano sono decasillabi e mentre quelli di Tropicália hanno solo 8 sillabe poetiche…
Veloso e Gil vengono arrestati nel febbraio del 1969 e incarcerati per 3 mesi, seguiti da altri 4 agli arresti domiciliari. Alla fine, vengono rilasciati a condizione di lasciare il Paese e trascorrere gli anni successivi in esilio. Caetano ha avuto modo di dichiarare: «Non ci hanno imprigionato per una canzone o per una cosa in particolare che abbiamo detto», attribuendo la reazione del Governo alla scarsa familiarità con il fenomeno culturale della Tropicália: sembrava, in buona sostanza, dire che «tanto valeva metterli in prigione».
Vivono il loro esilio a Londra, e quando a Veloso viene chiesto dell’esperienza inglese dichiara: «Londra mi sembrava buia e mi sentivo lontano da me stesso». Ciononostante, la coppia migliora la propria musica e nel 1972 Caetano incide 1 dei dischi più rivoluzionari della sua carriera, Transa, con Ralph Mace, il tastierista che nel 1970 aveva suonato nell’album The Man Who Sold The World di David Bowie. Vida longa ao rei Caetano e sua cabeça de coco!