Fra i narratori americani del 20° secolo, John Steinbeck (1902-1968) è forse il più dimenticato anche se, come Ernest Hemingway, si è aggiudicato un Nobel e – almeno in italiano, dopo un lungo periodo di oblìo – gran parte della sua opera è stata ristampata da Bompiani. Considero tuttavia come curiosità la proposizione di un suo testo ai tempi (1935) molto famoso, Pian della Tortilla, che ha avuto l’onore della traduzione di Elio Vittorini. Romanzo, se così lo vogliamo chiamare, che in realtà è una raccolta di novelle incentrato sulla vita randagia di alcuni paisanos senza arte né parte dediti soprattutto al bere in quel di Monterey, cittadina divenuta popolare nel 1967 per avere ospitato un festival rock (antesignano di Woodstock) di cui il quartiere di Pian della Tortilla – dove vivono gli ultimi discendenti dei californiani di sangue spagnolo – è parte.

Anche se il fil rouge è dato dalle avventure di questi compaesani nel milieu chicano di Monterey, nel complesso la trama del libro è alquanto esile: più che le vicende, ciò che dà compattezza al testo è il tono di soffusa e serena ironia che Steinbeck rivolge a protagonisti e comprimari. Come quando, per esempio, Joe il Grande viene mostrato preferire il vino alle profferte di una signora; e anche quando il tono dovrebbe elevarsi al drammatico, in realtà raggiunge al massimo una dolce malinconia come nel caso della morte, per improvvisa depressione, di quel Danny che potrebbe essere considerato il protagonista. Malinconia in apparenza discordante rispetto al tono generale del libro, che viene però riscattata dalla catarsi finale: il rogo della casa di Danny, involontariamente causato dai suoi amici poiché l’abitazione, di cui avevano anche usufruito, non apparterrà più a nessuno. E in fondo, ora che non esiste più, li lascia liberi vagabondi com’erano sempre stati.

John Steinbeck con la moglie, l’attrice Elaine Scott, nel 1950

Il testo, nella storica traduzione di Vittorini, è più interpretativo che letterale: sicuramente godibile, talvolta utilizza termini in un italiano antiquato: “pei” anzichè “per i”, oppure l’inversione dell’oggetto rispetto al soggetto (com’è tipico più della poesia che della prosa), il che produce forme sintattiche più vicine al ritmo poetico che a quello prosastico. Facciamo un esempio: “Gesù Maria Corcoran era maestro di umanitarismo. La sofferenza cercava di alleviare; il dolore cercava di placare; la felicità divideva” (pag.123). Possiamo ritenere questo genere di linguaggio desueto, ma rende bene la simpatia dell’autore nei confronti dei protagonisti. Oppure il titolo dell’11° capitolo, Come amore, pur in avverse circostanze, s’apprese a Joe il Grande, che sembra partorito da qualche Canzoniere poetico del 17° secolo; o ancora una frase, nel 15° capitolo, degna di Umberto Saba: “Le galline nuove della signora Morales canticchiavano brani di inni al sole”.

Pian della Tortilla è l’opera steinbeckiana  per così dire più “simpatica“, ma dimostra anche il suo non essere eccezionalmente narrativa. Di fatto, il romanziere californiano viene ricordato anche per Furore e per La luna è tramontata, entrambi d’impianto e sviluppo narrativo certamente superiori. Nel suo complesso, John Steinbeck è un romanziere di prima classe ma – come detto all’inizio – alquanto dimenticato. Penso che la ragione sia extraletteraria: fra i suoi coetanei non era una figura mitologica come Hemingway, non è stato “bello e dannato” come Francis Scott Fitzgerald e la sua pagina non possedeva l’epica complessità di William Faulkner, che ha potuto godere post mortem dell’assoluta considerazione di Garcia Marquez e anche di Andrea Camilleri, se pensiamo che nei racconti più foschi, ambigui e tormentati del Commissario Montalbano ritroviamo certe atmosfere faulkneriane.

Forse l’unico suo discepolo è stato John Fante, ma ho il sospetto che ad averlo fatto dimenticare in fretta sia stato ciò di cui scriveva: se Pian della Tortillabutta” su un piano di simpatia i suoi vagabondi, Furore è la storia di un’emigrazione negli anni della Grande Depressione: non scordiamoci infatti che il titolo originale, Grapes of Wrath (grappoli d’ira) è molto più forte. La luna è tramontata, invece, è dedicato alla resistenza norvegese contro i nazisti. Argomenti, insomma, politicamente scomodi. E se nel momento in cui è uscito (1939) Furore poteva essere considerato lo scritto più riuscito sul Crollo di Wall Street e di conseguenza è rimasto un classico da libreria, La luna è tramontata, pubblicato nel 1942, ha potuto godere dell’attualità ma già negli anni 50, in pieno “furoremaccartista, è finito per diventare sospetto. E così il suo autore.