Nella lingua e nella letteratura inglese (in particolare in quella romantica) la parola “wandering” è senza dubbio una splendida protagonista: nessun corrispondente in italiano (errante, girovagante, vagabondo, nomade) mi pare che possa vantare lo stesso peso specifico. Ecco che ci sono cascato subito: fin dal titolo, The Wandering Mind, ho cominciato a divagare. Ma dovevo aspettarmelo, perché ogni pagina del libro in esame sembra fatta apposta per giustificare questa mia rubrica, che non a caso è sottotitolata “divagazioni di un lettore caotico”.

Il professor Michael C. Corballis, psicologo e neuroscienziato neozelandese, è anche un signore dotato di senso dell’umorismo, oltre che di un notevole talento di divulgatore scientifico; il che vuol dire, prima di tutto, saper spiegare con linguaggio semplice e divertente argomenti non facili a persone di scarsa competenza. E tanto per cominciare, già dalla prefazione di La mente che vaga – sottotitolato Cosa fa il cervello quando siamo distratti – ci esorta a non provare sensi di colpa se non sappiamo tenere sotto controllo la nostra attenzione. Pare che sia assolutamente normale che durante il giorno la nostra mente divaghi per circa la metà del tempo a disposizione. Figurarsi poi di notte…

Michael C. Corballis

A chi non è capitato a scuola, durante una lezione particolarmente pallosa, di distrarsi? Fuori c’era un sole magnifico, oppure erano magnifici i riccioli biondi di una compagna… Da ragazzino bastava che un insegnante incontrasse i miei occhi spersi nel vuoto e m’interrogava minaccioso: «Di cosa stavamo parlando?». Qualche volta restavo inchiodato. Altre volte però lo fregavo: avevo ancora registrato nelle orecchie la sua ultima frase e gliela riportavo parola per parola, anche se non avevo la minima idea di quale argomento lui stesse trattando, dato che io stavo pensando a tutt’altro. (Oggi probabilmente non potrei permettermi un simile giochetto, non possedendo più un udito e un cervello così efficienti).

Dunque la mente se ne va a spasso, devia di continuo e a quanto pare, se non si eccede, non è affatto detto che sia un male. Le tecnologie più avanzate, come la risonanza magnetica, hanno permesso di indagare su quello che combina il nostro cervello in questi casi: quali e quante aree cerebrali vengono interessate; quando il divagare è consapevole (come nel rielaborare ricordi del passato o nel programmare azioni future) e quando è inconsapevole (come nei sogni o nelle allucinazioni); quanto influisce sullo sviluppo della memoria e della creatività.

Alla base del fenomeno c’è sicuramente la sconfinata curiosità dell’homo sapiens: una dote straordinaria e utilissima per progredire nella conoscenza, ma anche una spinta irrefrenabile a divagare oltre qualsiasi limite. Se penso a un esemplare di homo divagans eccessivo, ecco apparirmi dinnanzi il fantasma di Leonardo da Vinci: una mente inquieta che avvia e abbandona 1.000 progetti; un caso d’immensa creatività ma purtroppo anche con molti episodi d’inconcludenza… E questo è il maggiore problema delle menti che vagano troppo… Ma se si rimane nei giusti limiti, se non si sta 24 ore su 24 con la testa fra le nuvole, il divagare ha i suoi bei vantaggi.

Anche quando ci si distrae durante la lettura non è sempre un segno negativo. A volte mi capita di riguardare i segni e gli appunti che metto (rigorosamente a matita) accanto a certi passi dei libri letti e faccio una strana scoperta. Una buona parte di quelle annotazioni usano quel passo, non soltanto per approfondirlo, ma per andare a pescare altri pensieri e altre problematiche. Come se da quello spunto mi diventasse necessario connettermi con altri problemi: un gioco, appunto, di connessioni: che non sembra poi così diverso da quelle che continuamente realizza il cervello, da neurone a neurone, da sinapsi a sinapsi, da area ad area.

Tra le pagine più stimolanti del saggio di Corballis figurano quelle sull’evoluzione mentale dei bambini in relazione alla memoria e al linguaggio. Certe qualità sembra che si sviluppino soprattutto dopo i 4 anni, quando prende consistenza il senso del tempo (presente, passato, futuro). Già, c’è ancora molto da lavorare intorno al mistero del tempo, come a quello del linguaggio, così legato al pensiero da spingere molti studiosi a vacillare incerti davanti al “prima o dopo”: come dire, è dal linguaggio che nasce il pensiero o viceversa? Per Corballis la soluzione sta nella capacità di raccontare che ci viene concessa dal linguaggio: dunque gli esseri umani sanno raccontare i loro viaggi mentali, mentre gli animali, specie quelli più vicini a noi (scimpanzé o bonobo) sono probabilmente in grado anche loro di fare simili viaggi, ma “non sono in grado di raccontarci cosa stanno pensando”. Dunque, se la “stazione centrale” per i nostri viaggi mentali è l’ippocampo, le aree cerebrali del linguaggio sono quelle preposte a raccontarli: sia a noi stessi, sia agli altri.

Ed eccoci arrivati a un altro affascinante problema: appunto gli altri, i nostri simili con i quali si comunica e ci si scambia storie. Infatti è naturale che ognuno di noi abbia la tendenza a viaggiare anche nelle loro menti. Corballis non crede a fenomeni di telepatìa o ESP (extrasensorial perception). E sinceramente neanch’io ci credo. Tuttavia esiste una capacità di leggere nelle menti altrui, che ovviamente non tutti posseggono allo stesso livello. Soprattutto l’empatìa, la capacità di mettersi nei panni degli altri e di cogliere le emozioni sui loro volti, potrebbe essere il primo passo. E non si può negare che certe capacità si possano ritrovare anche negli animali: basti pensare a tutte le volte che i nostri amici a 4 zampe ci sorprendono con le loro qualità di raffinati psicologi e insieme di affettuosi compagni. Non a caso, a questo proposito, l’autore cita Charles Darwin: “La differenza mentale tra l’uomo e gli animali superiori, per quanto grande, è certamente di grado e non di genere”.

Qui si ritorna al punto fondamentale: l’homo narrans, il linguaggio e la necessità di comunicare raccontando storie, dapprima oralmente (nelle culture preletterarie) e poi attraverso la scrittura, il teatro, il cinema e ogni forma d’arte. Tuttavia senza le nostre doti immaginative, senza una mente che vaga, sarebbe impossibile essere quello che siamo: cioè animali sociali, seppure molto imperfetti. Infatti narrare storie trasforma i nostri viaggi mentali in viaggi condivisi. E al fondo di tutte le storie c’è ancora il perpetuo lavoro della memoria, i ricordi personificati e liberamente rielaborati con tutte le ambiguità, le imprecisioni e le bugie che contengono. Sì, perché la memoria non è mai garanzia di verità… Qualsiasi evento del passato può ritornare alla mente, sia durante la veglia che nel sonno, ma non sarà mai una fotocopia esatta di quello che è davvero avvenuto.

Si può meditare a lungo su certi temi e benedire ogni volta la nostra tendenza a distrarsi e a divagare; e quindi anche sentire gratitudine per l’autore di questo volume. Beninteso, non si tratta di un’opera con pretese di perfezione: talvolta il professor Corballis esagera nell’accumulare argomenti e teorie, o nel compiacersi della sua abilità di riportare aneddoti e citazioni. Ma alla fine di questa lettura ci si sente pacificati con la nostra coscienza, finalmente certi che proprio nelle divagazioni mentali e nell’esercizio dell’immaginazione si racchiude l’unica vera libertà dell’animale uomo. Tutte le altre cosiddette libertà sono solo miraggi, pie illusioni.

Michael C. Corballis, La mente che vaga – Cosa fa il cervello quando siamo distratti, Raffaello Cortina Editore, collana Scienza e Idee, 164 pagine, € 17