Un vecchio poeta, musico e cantore di nome Callimaco, vive gli ultimi sogni sul letto di morte circondato dai suoi affetti più cari: le memorie e le visioni che gli riportano accanto le persone, gli animali e le cose che ha amato sembrano quasi un film di cartoni animati, tanto sono lontani dalla realtà, o forse meglio trasportati in un’altra realtà. Un’intera vita gli passa davanti, ma proiettata in una dimensione diversa, sconosciuta. Questo è, più o meno, il contenuto dell’ultima opera di Massimo Bubola (veronese, classe 1954), talento inesauribile che continua ad alternare dischi e libri. Basta il titolo – Sognai talmente forte, Mondadori, 156 pagine, € 18 –  per far affiorare da memorie ormai piuttosto lontane alcuni versi di un capolavoro composto insieme a Fabrizio De André: “Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso/…. ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek ”.

La prima volta che ho ascoltato quella canzone sono stato travolto dall’emozione e non poteva essere altrimenti per chi, come me, si era appassionato fin da giovanissimo alla storia dei nativi americani e del loro olocausto. E questo mi fece provare subito una specie di fratellanza con Massimo Bubola. Lo conobbi solo qualche anno dopo: un informale appuntamento nella sua casa veronese insieme a un collega di redazione. Una magnifica accoglienza: niente di professionale, soltanto chiacchiere in libertà, i suoi racconti e le risate, oltre ai brindisi con l‘immancabile Amarone, sublime vino del suo territorio. Era davvero un vino straordinario! Ma forse l’ho deluso, non gli ho dato l’impressione di gradirlo più di tanto, perché sono sempre stato un peso leggero e la mia capacità di reggere l’alcol è piuttosto modesta.

Comunque è sempre facile fraternizzare tra provinciali, con tanti interessi in comune, tante forme di culto nate nell’adolescenza e conservate negli anni, quasi come un amore segreto. E di amore si può parlare assieme, di amore per le parole e la musica, ma anche di passione per il calcio… Perciò è stato facile per me capire verso quali orizzonti era puntato fin dagli esordi il suo talento. La vocazione del narratore di storie improbabili, eppure in qualche modo dentro la Storia dell’umanità, si è in qualche modo incarnata nel giovane Massimo, che nella magia della parola ha da sempre voluto trovare il senso che non c’è. O forse c’è, ma soltanto se lo si va a cercare in fondo al pozzo della poesia, dove si confondono canto ed incanto, sogno e follia.

La differenza di popolarità fra lui e De André gli ha lasciato probabilmente una ferita nel suo orgoglio di artista, che si è in parte attenuata col passare del tempo. In una recente intervista, Massimo ancora ricorda di non aver mai sopportato il termine “collaboratore ”: «Non è che andassi a tagliare il prato della sua villa… Scrivevo musica e versi. Offrivo la mia visione poetica del mondo». D’altronde il carattere di Fabrizio, tutt’altro che facile, è stato sempre una montagna da scalare per tutti quelli che hanno lavorato con lui, come Francesco De Gregori, Mauro Pagani, Ivano Fossati. Eppure nessuno come Bubola ha lasciato l’impronta della sua poesia in tanti memorabili successi: dal Fiume Sand Creek a Rimini; da Volta la carta a Hotel Supramonte; da Se ti tagliassero a pezzetti a Franziska; da Quello che non ho a Don Raffaè; da Andrea a Una storia sbagliata (straordinaria ballata in memoria di Pier Paolo Pasolini). Poi ci sono le altre canzoni: quelle affidate a voci diverse (come Il cielo d’Irlanda, hit di Fiorella Mannoia) e quelle inserite solo nei suoi album (Tre rose, Doppio lungo addio, Colline nere, Tempi migliori e tante altre). E poi ancora i libri di versi e di narrativa.

Anche nella lettura di quest’ultimo suo volume mi sento a volte catturato da antiche perplessità: dove si rischia di finire sulle tracce di questo visionario delirare? “La Bellezza ha sempre avuto al suo fianco un assassino ” e i poeti che a lungo l’hanno corteggiata – ricorda Bubola – vanno spesso incontro a morti terribili, come quella di Arthur Rimbaud di ritorno dall’Africa con una gamba in cancrena, o quella di Dino Campana chiuso nel manicomio di Scandicci. Dalla musica delle sfere celesti si può precipitare nel baratro, a capofitto nella disperazione e nella rabbia di appartenere alla più feroce delle specie animali, appunto quella umana.

Massimo Bubola e Fabrizio De André

Il racconto dell’agonia del vecchio poeta e del suo testamento continua ora per ora, capitolo per capitolo. Qua e là affiora qualche compiacimento da letterato, come è facile che accada quando ci s’immerge nella foschia della reverie, dove il sogno, prima del definitivo risveglio, si prolunga in una fantasticheria libera da qualsiasi logica. E il susseguirsi dei racconti diventano un viaggio, una navigazione senza bussola, verso un approdo sconosciuto nelle isole da dove non si torna più. Lungo le pagine riaffiorano tante (forse troppe) citazioni poetiche, tanti versi non solo delle sue canzoni ma anche di poeti che l’autore ama e richiama volentieri alla memoria: Rainer Maria Rilke, Federico Garcia Lorca, Lorenzo Da Ponte (il librettista di Wolfgang Amadeus Mozart) e magari lo stesso Callimaco (quello originario, il famoso lirico greco-alessandrino del III secolo a.C.). Certo i rischi ci sono: tutti quei “come”, tutte quelle similitudini, quelle metafore, quell’enfasi da cantore veggente di epoche primitive, così lontane dai nostri giorni. A tratti il lettore è confuso, perde il filo, lo ritrova, si ribella, ma alla fine sta al gioco. Perché forse sta proprio nel gioco il senso del tutto.

In conclusione quell’intrecciarsi di storie, terribili e meravigliose, fantastiche ma non troppo, non sembra altro che un pretesto per ripercorrere i giorni trascorsi di un’intera esistenza, una “vita rotante all’indietro”, un castello fiabesco costruito con “mattoni di parole”. Entrare nei cancelli della morte, come gli antichi greci, camminando all’indietro, serve soprattutto a contemplare il passato, magari con un po’ di nostalgia. E il capitolo finale si conclude con l’intero testo di una delle sue ultime canzoni: “Abbiamo conosciuto tempi migliori…”. Solo la musica – sostiene Bubola – aiuta a ricordare le parole in un mondo di suoni misteriosi, dove l’insensata filastrocca infantile scambia la sua magica luce con quella della canzone. E viceversa.