“Chi era mio padre?”.

Le parole suonarono lente come una lama che penetra senza fretta, convinta di ottenere ciò che vuole. La domanda di un ragazzo di diciannove anni, non tanto alto, dal fisico robusto e con una espressione sul viso già da uomo.

“Davide, chi era mio padre?”.

Davide, il professore di Diritto, era un uomo calmo. Il viso giovanile, gli occhi di una dolcezza infinita. Alla domanda ripetuta il suo sguardo si spostò dal ragazzo alla finestra. Gli alberi agitati dal vento del primo pomeriggio di quella giornata di ottobre urlavano dalle loro chiome, quasi a voler dare una risposta che non arrivava.

“Perché ogni volta che faccio questa domanda viene sempre elusa la risposta? Mi sembra di avere il diritto di sapere che uomo era quello che mi ha dato la vita. Ogni volta che lo chiedo a mia madre … lei … “.

Ad un cenno della mano dell’uomo, Luca, il ragazzo, si interruppe.

“Lo so, lei spalanca i suoi enormi occhi azzurri che le si velano di lacrime”.
“Proprio così. Tu sei amico anche di mia madre, lo sai bene come è fatta”.
“Vuoi veramente sapere chi era tuo padre e cosa gli è successo?”.
“Sì lo voglio, lo voglio da quando sono nato”.
“Allora siediti e ascolta”.

Davide andò a mettersi in piedi di fronte alla finestra aperta, voltando le spalle al ragazzo.

“Tuo padre era uno studente di Legge, di un paio di anni più anziano di me. Ora avrebbe quarantaquattro anni. Quando lo conobbi faceva il quarto anno. Non aveva mai eccelso negli studi, ma era molto intelligente ed aveva una sensibilità d’animo unica, che però tendeva a nascondere con tutti. Con tutti meno che con tua madre e con me. Con lei era dolce, premuroso, a volte severo, ma mai egoista. Se solo lo avessimo conosciuto meglio avremmo potuto imparare tutti molto da lui. Lui vedeva la vita in una prospettiva del tutto particolare, solo sua. Non aveva mai paura di niente. Non c’era un motivo per questo, era così e basta. Anche quando tua madre gli disse che era incinta lui non si perse d’animo. Gli mancavano ancora otto esami alla laurea, ma trovò un lavoro e mantenne tua madre e se stesso finché ci fu. Lavorava al giornale come cronista presso il Pronto Soccorso e, per quanto era dolce di carattere, sapeva essere duro in ciò che scriveva. Aveva un talento naturale”.

“Ho letto le sue poesie, sono bellissime”.
“Proprio così. Sono quelle che scriveva a tua madre”.

Le parole dell’uomo fluivano lente, come i ricordi nella sua mente. Mentre osservava il cielo di ottobre, azzurro, pensava che tutta la vita avrebbe portato dentro di sé il ricordo del suo amico.

“Mi fu facile essere amico di tuo padre, ci intendevamo con uno sguardo. Sai, tua madre piaceva anche a me allora, ma lei preferì tuo padre. Con la sua barba rossa e nera ed i capelli scuri e ricci sembrava quasi un diavolo, ma aveva negli occhi qualcosa di infinitamente buono. Tua madre gliela presentai io. Era una ragazzina bionda con grandi occhi azzurri e uno sguardo da bambina. Conoscevo già abbastanza bene tuo padre da dire che se ne innamorò a prima vista. Con lei faceva quello che non aveva mai fatto con nessun’altra. Leggeva le sue poesie, scriveva canzoni per cantargliele. Tua madre non può ricordare queste cose senza sentirsi morire, per me è diverso. Cominciarono ad uscire insieme. Lui le faceva visitare la città, le mostrava i posti più belli, più romantici. Non so perché, ma quando ci ripenso li rivedo sempre per mano lungo i viali del parco, con il vento forte che scuote gli alberi. Tuo padre adorava il vento, lo faceva sentire felice, gioioso. Adorava anche la sua terra, la Bassa, le era molto legato. Ero io quello pieno di entusiasmo per tante cose, io quello che organizzava tutto, ma senza di lui non so come avrei mai potuto fare. I suoi consigli erano sempre i più giusti. Sapeva dire le parole adatte in ogni situazione ed erano i momenti difficili quelli in cui dava il massimo. Quando tutti gli altri avevano esaurito le loro energie, era lui che ci dava la forza di continuare. Amava tua madre come mai nessun’altra. Tu fosti concepito, mi dissero, una sera di settembre di vent’anni fa. Era una sera calda, soffiava un dolce vento e c’era la luna piena. Penso che la dolcezza ed il calore che gli diede tua madre in quel momento tuo padre non l’avesse mai provata prima. Li incontrai il giorno dopo lungo la strada. I loro sguardi erano così dolci, quasi già sapessero di te. Non li fermai, ma ricordo che il sole del tramonto si specchiava negli enormi occhi di tua madre e gli ultimi raggi accendevano la barba rossa e nera di tuo padre e i suoi occhi scuri”.

“Ogni tanto la mamma mi legge le lettere di mio padre e i suoi diari. Sono parole che sanno di cose antiche, ma molto vicine. Le sue poesie, i suoi racconti, gli articoli di giornale hanno un sapore buono, familiare, anche quando parlano di morte”.

“Proprio così. Scriveva magnificamente. Io non ci sono mai riuscito. Tuo padre era un goliarda, ma non come tanti, volgari e superficiali. Conosceva il riso che dava gioia, non quello delle battute da bordello. Molta gente, per questo, lo disprezzava. Gente che non capiva e che non capirà mai. Da quel giorno di settembre che li incontrai furono sempre insieme. Lui lavorava e studiava. Ogni tanto litigavano per questa o quell’altra cosa, ma andava tutto bene. Tua madre era il ritratto della felicità. Amavamo uscire a camminare la sera dopo cena e le discussioni che nascevano tra noi amici erano quelle di sempre. Si parlava del futuro, della città che si ingrandiva. Una sera brindammo a te con la birra. Tuo padre ne beveva a litri e non si ubriacava quasi mai. Il lavoro, però, l’aveva reso più cupo. Non parlava molto per natura, ma nell’ultimo periodo parlava ancora meno del solito. Durante il suo lavoro si era scontrato con realtà prima solo intraviste. Al Pronto Soccorso portavano feriti da incidenti, ragazzi in overdose, mogli picchiate dai mariti. Scriveva ogni giorno articoli su queste cose e non si limitava a riportare i fatti. Ciò che scriveva tuo padre faceva pensare la gente. Tutto l’aspetto di tuo padre faceva pensare. Dal modo di vestirsi, sempre elegante, ma mai affettato, al suo sguardo profondo e serio come di uomo che conosceva più cose di quante l’età gliene permettesse. Preparavamo gli esami insieme, ogni tanto, e mi sorprendeva ogni volta che ricordasse sempre di più di quel che ricordavo io, studiando quasi la metà. Intravvedeva le finezze del diritto, le più nascoste, ma poi non capiva teorie semplicissime. Adorava la musica barocca, soprattutto quella italiana, e il blues. In politica era totalmente anarchico, ma un anarchico vero, aveva una totale libertà di pensiero e questo, ogni tanto, impensieriva tua madre. Facevano lunghe gite in cui parlavano di te. Di cosa avresti fatto. Gli avrebbe fatto molto piacere che ti fossi iscritto a Giurisprudenza. C’era un posto, su in montagna, che tuo padre adorava, da cui si vedeva tutta la valle fino alla città. Passavano là intere giornate. Poi venne la neve. Fu un inverno lungo. Noi stavamo preparando gli ultimi esami, poi a luglio, la laurea e i tuoi si sarebbero sposati, ma un giorno di aprile accadde qualcosa. Tutto questo me lo raccontò tua madre dopo. Erano andati fuori città, in collina verso un castello, quando, non ho mai saputo il perché, si misero a litigare. Una lite da innamorati. Una piccola nube in un cielo terso. Quando si arrabbiava tuo padre era tremendo. Lei lo vedeva troppo innamorato, aveva sempre paura di ferirlo. Ad un tratto lui smise di gridare e fermò l’auto in piena campagna, lungo la strada. Aprì la portiera urlando qualcosa a tua madre, ma, preso dalla foga della lite, non si accorse del camion che stava arrivando sulla loro corsia. Fu un attimo. Non si sentì nemmeno lo schianto. Solo uno stridere di freni e l’urlo di tuo padre. Un urlo che non era umano. Lo accolsero diversi metri più avanti, il camionista e tua madre. Respirava ancora e, quando vide il volto di tua madre in lacrime ebbe solo il tempo di dirle “ti amo”. Lei non se lo perdonò mai. Quattro mesi dopo nascesti tu”.

Era sera ormai ed il tramonto colorava di rosa i tetti dell’Università ed i campanili delle chiese intorno. La voce di Davide si era fatta sempre più cupa durante il racconto ed ora era rotta. Due grosse lacrime scendevano sul viso dell’uomo. Luca si alzò dalla sedia dietro la scrivania ed uscì dall’ombra della stanza. Quando fu vicino alla finestra abbracciò l’uomo nella luce del sole morente, mente gli ultimi raggi accendevano la sua rada barba rossa e nera ed i suoi occhi dolci.

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Arturo Pagnanelli è nato a Parma, dove vive e fa l’avvocato, 54 anni fa. È appassionato di libri e di musica Rock. Ama  la letteratura del 900 e fra i suoi autori preferiti ci sono Stefano Benni, John Steinbeck, ma anche il primo Alberto Bevilacqua e Leonardo Sciascia. I suoi miti musicali sono Bruce Springsteen, Elvis Presley, Robert Johnson, Cure, Clash, Rolling Stones e Beatles.