Questa favola che sembrerebbe, come avrete già immaginato, niente di più che un’invenzione della fervida fantasia contadina, è vecchia ormai di quasi un secolo. Prese a circolare in paese dopo la morte in guerra di un giovane da tutti declamato come la bellezza maschile personificata in un essere umano di appena vent’anni.

La storia cominciò a prendermi per il modo in cui mi fu raccontata. Come si racconta una favola, appunto. Me ne parlò un vecchio barbone del luogo che avevo invitato a sedere accanto a me al tavolino di un bar localizzato all’ingresso di un paesucolo rintanato all’imbocco della Val Tidone.

Là sedevo sotto il sole. Lui, il barbone, se ne stava ingobbito contro la scorza di un tronco antistante la spianata del bar. L’osservavo già da qualche minuto. Era messo davvero male e io mi chiedevo che cosa ci facesse in quel posto dove un tale come lui risultava chiaramente fuori posto. Barba e capelli lunghissimi, visibilmente unti e una copertura dalle spalle ai piedi che a chiamarla vestito si farebbe ridere persino i sassi: niente di più che stracci sporchi e strappati in ogni punto. Ai piedi nuovissime scarpette bianche coprivano due piedi abbronzatissimi, o forse sporchissimi, che non potei fare a meno di osservare più volte. Chi, dopo l’approccio con un tale spettacolo, se ne sarebbe andato schifato per la sua strada? Perciò qualcosa dentro di me mi spinse a muovergli un gesto del capo dentro un piccolo sorriso. Lui capì al volo e schizzò, letteralmente schizzò, al mio tavolo dove sedette composto e silenzioso. Puzzava come un vecchio caprone inselvatichito. Una roba da far cadere il naso. Lo osservai in volto, approfittando del suo silenzio. Possedeva un bel volto. Ma gli occhi, soprattutto, erano la cosa più bella che avevo visto negli ultimi vent’anni. Erano occhi grandi e celesti come un mare di Sicilia che, in quel momento, esprimevano stupore e gratitudine per l’invito che aveva ricevuto. Di colpo, chissà perché, guardammo entrambi al termine della spianata dove cominciava un fitto bosco di castagni. Subito dopo saliva un’erta a formare una collinetta in cima alla quale sorgeva un rudere che in origine doveva essere stato una specie di castello.

Il paese cominciava alla destra del bar e si componeva di poche case ordinate tutte bianche con i tetti di coppi rossi. L’arrivo del cameriere giunse a interrompere i miei pensieri rivolti ai dintorni.

“Buon giorno, ingegnere“, esordì il cameriere rivolto all’ospite che avevo invitato al mio tavolo. Per quanto riguarda la mia persona non mi cagò nemmeno.

“Mi permetto di suggerire il gelato della casa, che qui viene chiamato pasticcio“, mi precedette l’ingegnere barbone.

“Va bene anche per me“, intervenni di forza filando il cameriere con aria di sfida.

L’ingegnere barbone allungò un braccio all’esterno e cominciò a parlare. Possedeva una bella voce in qualche modo simile alla voce di Gassmann allorché declamava le bellezze di un luogo.

“Il villaggio sorge ai piedi di quella collina. Questo bar è l’unico luogo di ritrovo dove si raccolgono la sera quei pochi abitanti del posto…“.

Sospese il racconto perché erano arrivati i gelati, cioè i pasticci. L’impasto stava infraccato entro capaci bicchieri trasparenti. Molta crema, ma anche limone, nocciola e qualche gusto alla frutta di stagione. Componevano un bel pasticcio di colori. Ma c’era dell’altro, forse il meglio. Nei vuoti e le crepe tra un gusto e l’altro scivolava denso un liquido brunastro. Volli assaggiarlo sopra una cucchiaiata di gelato alla crema. Rimasi di stucco, con la bocca aperta e gli occhi quasi chiusi. Era il meglio che avessi mai ingollato in fatto di gelati. Quel liquido bruno, poi, che sentiva di rum, ma non soltanto, c’era anche della mandorla, completava, enfatizzandoli, i diversi gusti.

Il cameriere era lì che mi guardava, vergognosamente compiaciuto.

“Che cos’è questo liquido, rum?“, chiesi.

“Così si fa colà dove si puote e più non dimandar…“.

Se ne andò sculettando come una checca. Una checca saputa e presuntuosa.

L’ingegnere barbone sorrideva, evidentemente compiaciuto, mentre riprendeva il suo narrare:

“… È un paese con poche case, una attaccata all’altra, coi tetti tutti di cotto rosso, come ho detto. I più degli abitanti coltivano la terra, vigneti a strafottere, vino eccellente. Il resto degli abitanti è composto di abili artigiani che costruiscono bellissimi mobili con un legno pregiato che pare sia esclusivo di queste parti. In paese vivono parecchi ragazzi, di tutte le età, due dei quali, ora diventati uomini, erano grandi amici e il loro maggior divertimento consisteva nell’esplorare luoghi isolati e selvaggi. Alcuni anni dopo, era piena estate, non c’erano più luoghi da scoprire. Tranne uno, ma quello era assolutamente vietato. Si trattava di un posto del quale, per volontà dei valligiani, chissà perché, era persino proibito discuterne pubblicamente. Ai due, perciò, crebbe subito in fondo al cuore un solo, grande desiderio: quello di esplorare il luogo proibito.

In cima all’erta collina, come si è già accennato, sorgeva una tetra costruzione parzialmente diroccata. Nel passato essa aveva ospitato due guarnigioni di soldati. Poi, in mancanza di guerre, era stata dimenticata ed ora cadeva in rovina senza che alcuno se ne curasse. Dal paese si scorgevano appena le finestre spalancate, sempre buie, e l’edera che vi era cresciuta intorno come un serpentone verde.

Quello era il luogo proibito poiché, a detta di tutto il paese, vi capitavano strani fatti e coloro che vi si erano avventurati non facevano più ritorno. Se, però, come avevano cominciato a fare i due amici, si chiedeva in giro quali fossero gli strani fatti che vi capitavano e chi erano i coraggiosi che non avevano più fatto ritorno, nessuno sapeva offrire una risposta accettabile e neanche i nomi degli scomparsi. Né il sindaco, né il maresciallo dei carabinieri e neanche il parroco erano in grado di fare nomi.

Cosicché i due amici, dopo lunghe discussioni, un mattino di luglio partirono alla scoperta della fortezza abbandonata. Sgusciarono fuori di casa il mattino presto e affrontarono subito il sentiero che portava in collina. Superarono il bosco dei castagni svelti come lepri poiché lo conoscevano spanna dopo spanna. Fu alla fine dei castagni, là dove cominciava l’erba incolta, che presero a muoversi con circospezione. Infatti, la fortezza abbandonata sorgeva proprio alla fine di quel lungo campo incolto.

L’erba era tanto alta che giungeva ai loro petti. Migliaia di papaveri rosseggiavano tra i lunghi spuntoni. Muovendo con lentezza i piedi sul fondo sconnesso giunsero all’inizio della spianata che sorgeva di fronte alla fortezza. E per la prima volta la videro da vicino.

Si trattava di una costruzione in pietra grigia che si elevava su due piani, quasi interamente ricoperta di un’edera grassa e verdastra. Quattro grandi finestre si spalancavano sulla spianata. Sfalcioni d’edere penetravano all’interno oltre il quale si scorgeva soltanto un infinito buio.

I due amici erano quasi sul punto di alzare i tacchi e fare una veloce marcia indietro. La curiosità, tuttavia, prevalse. Varcarono cauti la soglia. La porta d’ingresso era addirittura crollata al suolo in spezzoni di legno marcio. Faceva un caldo bestia. Nella poca luce videro uno stanzone lungo e stretto con tanti armadietti metallici appesi alle pareti e qualche letto scheletrito sparso presso i muri. Polvere, ragnatele e sporcizia la facevano da padrone dappertutto.

D’improvviso, una folata d’aria freddissima raggelò i due giovani e tornò loro una voglia matta di darsela a gambe levate. Entrambi sentivano violenti brividi che gli salivano lungo le cosce. Per la seconda volta resistettero, ma la paura era stata vinta da qualcos’altro molto più forte. Presso alcuni armadietti era comparsa un luce.

Al principio fu una luce fioca, tonda, grande come una palla da biliardo che però prese a crescere e rafforzarsi fino a diventare una grossa sfera luminosa. A quel punto i due giovani erano pietrificati dallo spavento. La palla si mosse staccandosi dalla parete tra gli armadietti e cominciò a galleggiare nell’aria. Quindi si allungò assottigliandosi più volte fino ad assumere le fattezze di un uomo. Un uomo giovane, luminoso, bellissimo e trasparente che indossava un’uniforme militare. Il giovane ectoplasma mosse alcuni passi. Camminava nell’aria, quindi penetrò nella parete e scomparve del tutto. Entrambi i giovani, tuttavia, avevano avuto tutto il tempo di vederne il viso, i cui caratteri somatici erano identici a quelli del giovane soldato morto nel corso dell’ultima guerra.

I due, a quel punto balzarono fuori dalla fortezza e fuggirono a gambe levate fino al paese, dove raccontarono per filo e per segno la loro avventura.

Qualcuno rise all’udire quella storia, qualcun altro scrollò le spalle. Il maresciallo dei carabinieri, invece, prestò loro fede e ordinò subito che una pattuglia si recasse lassù e lui stesso se ne pose al comando.

Tutto il paese era in attesa sulla spianata di fronte al bosco. Cominciava a calare l’oscurità quando la pattuglia dei carabinieri spuntò dal verde. I militari avevano le facce più smorte dell’acqua pulita e soltanto il maresciallo riuscì, con palese sforzo, a raccontare ciò che era loro accaduto. Disse che il soldato fantasma era apparso ai loro occhi ed era quello morto in battaglia tanti anni prima. Aveva ancora gli occhi più belli del mondo. Così disse e quasi piangeva. Poi in un attimo era scomparso.

Tre giorni dopo la fortezza abbandonata venne fatta esplodere dagli artificieri con la dinamite. Le macerie furono ricoperte con la terra dei castagni e tante giovani viti furono piantate dai contadini. Oggi quel vigneto regala al paese il più buon vino della vallata.

P.S. È tempo di confessare ai lettori due cose. La prima è che ho dovuto omettere ogni nome di luoghi e persone perché i due ragazzi della narrazione sono oggi uomini che abitano con le rispettive famiglie ancora in paese. E l’ingegnere barbone supera ormai i novant’anni ed è ancora sveglio e vegeto e lo si rintraccia sempre nei pressi del bar appena fuori il paese. Sorride a tutti che non sanno basterebbe un cenno del capo per farlo avvicinare e cominciare a raccontare la storia del giovane soldato dagli occhi più belli del mondo.

Fra i romanzi di  Sergio Cioncolini pubblicati da Pendragon ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018), Danni collaterali (2019) e Vacanza di sangue (2020).

© Lee Jeffries