Capita per una volta – e una volta soltanto – di dissentire da Joe Boyd, il mitico produttore, manager e talent scout americano che trasferitosi a Londra nella seconda metà degli anni 60 diventò un faro per la controcultura britannica promuovendo giovani talenti irregolari come i Pink Floyd, i Fairport Convention, l’Incredible String Band, Nick Drake e tanti altri. Nel cuore del grande “music man” bostoniano Sandy Denny, tormentata first lady del folk rock britannico morta nel 1978 a soli 31 anni, ha sempre occupato un posto speciale.
Questo non gli ha mai impedito di considerare un passo falso, in termini artistici e di carriera, la breve avventura dei Fotheringay, che molti altri (musicisti, amici, fan, critici musicali) ricordano invece con grande affetto. Questione, probabilmente, di prospettive e di esperienze vissute in prima persona: nel 1970, dopo avere abbandonato i Fairport per potersi esprimere come autrice smarcandosi dalla svolta tradizionalista di Liege And Lief, Sandy non accettò i consigli di Boyd, contravvenendo ai desideri delle case discografiche che l’avevano lanciata – la Island di Chris Blackwell nel Regno Unito, la A&M in America – e che per lei immaginavano un futuro da solista e da pop star alla stregua di Joan Baez, di Joni Mitchell e di Judy Collins (nel 1968 quest’ultima aveva inciso una cover di quella che rimane tuttora la sua canzone più famosa, Who Knows Where The Time Goes?).
Sandy Denny
Formò invece un nuovo quintetto fondato su principi egalitari e democratici: un gruppo dall’atteggiamento easy che le avrebbe fatto da scudo protettivo difendendola dalle pressioni del music business e dalle sue congenite insicurezze. Senza un vero progetto alle spalle, se non quello di ridurre drasticamente gli impegni dal vivo, evitare i viaggi aerei che la terrorizzavano e trascorrere tutto il suo tempo accanto al compagno e futuro marito, il cantautore e chitarrista australiano Trevor Lucas, uno spilungone rossiccio e sciupafemmine a cui la vita on the road presentava numerose occasioni di infedeltà. Scelsero come nome il titolo della canzone che nel 1969 aveva aperto What We Did On Our Holidays, il 1° album della Denny con i Fairport Convention: una ballata folk scritta di suo pugno ma che rielaborava un episodio storico: gli ultimi giorni di prigionia di Maria Stuarda Regina di Scozia nel castello inglese di Fotheringay prima di essere condotta alla ghigliottina.
La A&M aveva staccato 1 assegno da 40.000 sterline, una cifra doppia di quella offerta ai Fairport, per 1 album solista che mettesse in primo piano il suo volto, il suo nome e la sua meravigliosa voce. Ma Sandy aveva tutt’altro in mente, e si può solo immaginare la rabbia e lo sgomento del pragmatico Boyd quando venne a sapere che lei, Trevor e il resto della band s’erano messi a sperperare l’anticipo comprandosi una Bentley e facendosi costruire un mastodontico, costosissimo impianto di amplificazione non a caso subito ironicamente ribattezzato Stonehenge.
I Fotheringay, ha scritto Boyd nella sua autobiografia White Bicycles, erano “un castello fondato su false fondamenta”; e la colpa a suo dire era di Lucas, non dotato di un talento all’altezza della sua protetta. Eppure non era l’ultimo arrivato, il 27enne Aussie: aveva già pubblicato dischi solisti, sapeva scrivere belle canzoni (anche se certo non memorabili come quelle della sua partner), aveva buon orecchio, era un motivatore capace di circondarsi della gente giusta ed era dotato di una bella voce baritonale, calda e profonda. Dal suo ultimo gruppo, gli Eclection, si era portato dietro il batterista, Gerry Conway, un metronomo dal drumming intuitivo che suonava a bocca aperta mormorando parole incomprensibili e che era capace di sorprendenti finezze stilistiche, e il resto del puzzle si compose in fretta. Richard Thompson, che come Sandy aveva lasciato il vecchio gruppo restandole amico, suggerì come chitarrista solista Albert Lee, grande stilista dello strumento molto apprezzato nell’ambiente che dopo poche prove capì tuttavia di non essere ritagliato per quel ruolo; fu il suo collega scozzese Pat Donaldson, che lo stesso Thompson ricorda nella sua autobiografia Beeswing come un vero rocker con un piglio da teddy boy, basette stile anni 50 e audaci abbinamenti multicolori di vestiario, a suggerire a quel punto il nome di un altro virtuoso della sei corde elettrica, un semisconosciuto newyorkese di nome Jerry Donahue che con lui e Lee aveva suonato in un gruppo chiamato Poet and the One Man Band.
I 5 cominciarono a suonare insieme nell’appartamento che Sandy e Trevor condividevano da circa 6 mesi al 2° piano di un edificio in Chipstead Street, nel distretto londinese di Fulham. Un porto di mare aperto giorno e notte ad amici e musicisti, con il pianoforte della Denny e le chitarre della coppia sistemate in una stanza insonorizzata che Lucas aveva trasformato in una sala prove, 2 enormi altoparlanti Vortex appesi al soffitto da cui nelle pause delle session si diffondevano a tutto volume le note della Band, dei Byrds, dei Flying Burrito Brothers, dei Buffalo Springfield, di Captain Beefheart, di Linda Ronstadt, di Janis Joplin con Big Brother & The Holding Company e di Crosby, Stills & Nash.
Musica e canzone d’autore americana, che nello stile dei Fotheringay trovavano subito piena cittadinanza grazie soprattutto al fluido fraseggio country rock di Donahue, già allora un maestro della Telecaster dal tocco elegantissimo e incisivo. Il 1° pezzo con cui il quintetto si cimenta, The Way I Feel di Gordon Lightfoot, finirà sull’album e confermerà a tutti che le tessere del mosaico sono perfettamente incastrate. Jerry si inventa un gran riff, le voci di Sandy e Trevor si amalgamano benissimo, la sezione ritmica sviluppa un irresistibile groove in crescendo e quel che ne viene fuori ha il sapore di certa psichedelìa folk rock californiana: rimarrà, la loro, una cover di riferimento fra le tante esistenti del classico del cantautore canadese.
Auto incaricatosi della produzione, Boyd storce il naso al cospetto dei pezzi che vedono Lucas nel ruolo di protagonista, ma è pronto a riconoscere che il materiale portato agli studi Sound Techniques dalla Denny è di prima qualità. Il pathos impetuoso di Nothing More e i ricami eleganti di The Pond And The Stream sono perfetti veicoli per il suo lirismo poetico, la sua vocalità a pieni polmoni e il suo innato spleen; “canzoni ritratto” che prendono spunto da persone reali e da intime frequentazioni: l’amico giovane ma profondamente addolorato di cui canta nel 1° pezzo sarebbe proprio Thompson, traumatizzato dal tragico incidente stradale che l’anno prima aveva spento le giovani vite della sua ragazza americana, Jeannie Franklyn, e del batterista dei Fairport, Martin Lamble, rendendolo sempre più chiuso e impenetrabile.
Nel 2° brano, le immagini metaforiche di uno stagno e di un ruscello servivano a mettere a confronto i blocchi mentali e il bisogno di stabilità dell’autrice con la libertà e il moto perpetuo di Anne Briggs, la folk singer inglese che aveva fatto della vita nomade e senza catene un credo esistenziale. Con la loro forza travolgente e il loro mistero, il mare e la natura sono spesso presenti nel songwriting di Sandy: qui animano i moti ondosi di The Sea, dove l’affresco apocalittico di una Londra sommersa dalle acque riflette le sue profonde inquietudini, mentre nel madrigale di Winter Winds torna un altro tema ricorrente della sua poetica, il susseguirsi delle stagioni astronomiche e del cuore.
Fotheringay
A 4 mani con Lucas la Denny firma Peace In The End, una ballata gospel rock orecchiabile e ottimista scelta non a caso come singolo di lancio dell’Lp, mentre Trevor pesca dagli allora inediti ma già molto saccheggiati Basement Tapes dylaniani una convincente Too Much Of Nothing e aggiorna lo stile delle bushrangers ballads australiane del 19° secolo con The Ballad Of Ned Kelly, ispirata alla figura del più celebre fuorilegge/eroe romantico del suo Paese. Soprattutto porta in dote l’arrangiamento già tracciato in un suo disco solista di The Banks Of The Nile, traditional britannico risalente alle guerre napoleoniche che offre l’occasione di una delle sue migliori performance vocali di sempre (la migliore in assoluto, secondo luminari come Martin Carthy e Shirley Collins e l’amica del cuore Linda Thompson) a un’interprete in totale simbiosi con la protagonista femminile, una donna innamorata che per non abbandonare il compagno spedito in missione in Egitto si traveste da soldato scoprendo con i propri occhi tutti gli orrori della guerra.
È l’unico, autentico pezzo di folk elettrico in tutto disco, ma anche il suo capolavoro. «Difficile da registrare», come ha raccontato Conway a Mick Houghton, autore del libro I’ve Always Kept A Unicorn – The Biography of Sandy Denny. Anche se, dopo qualche tentativo insoddisfacente, bastò una sosta collettiva al pub per riordinare le idee e fissare su nastro la versione definitiva in un’unica take: 8 minuti di magica ipnosi e di esercizio telepatico; una esecuzione esemplare che ha nella misura e nella finezza dell’arrangiamento le armi migliori; una ragnatela delicata e avvolgente di chitarre, basso e batteria. In The Banks Of The Nile il non detto e i silenzi contano quanto le note e la voce; ed è proprio quella tensione trattenuta, mai lasciata esplodere, ad amplificarne la potenza espressiva.
Non bastò, all’epoca, per portare in classifica l’album, distribuito nei negozi nel giugno del 1970 con una copertina disegnata dalla sorella di Lucas, Marion Appleton, che raffigurava i Fotheringay abbigliati un po’ da hippie e un po’ da cortigiani Tudor, con in mano i loro strumenti moderni ed elettrici. Né a infondere fiducia a Sandy, 3 mesi dopo votata migliore cantante britannica di sesso femminile nel referendum indotto dal settimanale Melody Maker, o a risolverne i dubbi esistenziali, portandola anzi a riconsiderare l’opzione della carriera solista.
I tentativi di registrare un 2° album nell’arco di 5 session tenute ai Sound Techniques fra l’ottobre e il dicembre del 1971 si sarebbero scontrati con una ispirazione lievemente calante, con scelte strategiche sbagliate (compreso un disastroso concerto alla Royal Albert Hall, quando i Fotheringay vennero sbaragliati dall’artista che si erano scelti come spalla: un già agguerritissimo Elton John), con un budget ridotto e con l’ostilità crescente di un Boyd in procinto di abbandonare la nave per assumere un nuovo incarico professionale in California. Bisognerà attendere il 2008 per ascoltarne una versione rappezzata da Donahue sovrapponendo nuove incisioni ai nastri preesistenti; e i Fotheringay verranno dunque consegnati alla storia soprattutto da questo 1° e unico album ufficiale. Sostanzialmente superiore, a conti fatti, ai 4 successivi dischi solisti di Sandy. Screziato, malinconico, frizzante e luminoso come un’Estate di San Martino.
Fotheringay, Fotheringay (1970, Island/A&M)