La maggior parte dei fan ha certamente il suo Beatle preferito, ma non si può discutere quale album solista dei Fab 4 sia considerato il migliore: All Things Must Pass di George Harrison. Pubblicato nel novembre 1970 ad appena 7 mesi dallo scioglimento dei Beatles, è diventato il sinonimo di “genialità soppressa”. Da quando è riuscito ad avere per la prima volta un suo brano (Don’t Bother Me, 1963) in un disco del gruppo, Harrison ha dovuto infatti combattere – spesso senza successo – per inserire le sue canzoni, ottenendone alla fine 1 per Lp e in seguito 1 per lato. Naturale, quindi, che avesse parecchio materiale arretrato; e la frustrazione nel cercare di spezzare l’egemonia compositiva firmata Lennon/McCartney è stata con ogni probabilità una delle ragioni della fine dei Beatles. Eppure, è anche il motivo per cui All Things Must Pass è un tale capolavoro: George ci ha praticamente lavorato per tutta la sua carriera.

Pete Drake, George Harrison, Ringo Starr, Billy Preston, Peter Frampton
(courtesy George Harrison Estate)

L’eternamente sottovalutato Harrison, è stato di gran lunga il Beatle più prolifico extracurricolare. Ha scritto, co-scritto, prodotto e/o suonato in canzoni o album dei Cream, di Billy Preston, di cantanti quali Doris Troy, Jackie Lomax e altri ancora. Si è dilettato di musica indiana, di musica elettronica e si è persino unito al suo migliore amico, Eric Clapton, per un breve tour con il duo americano Delaney & Bonnie. Nel 1968 è stato invitato a Woodstock dalla Band e ha collaborato con Bob Dylan, con cui ha scritto I’d Have You Anytime, traccia d’apertura di All Things Must Pass.

Tutto il suo talento e l’ispirazione a lungo repressa, si sono così concretizzati in questo straordinario album prodotto con Phil Spector e in origine pubblicato su 2 Lp insieme a un disco bonus di jam session strumentali con musicisti da lui riuniti quali, oltre a Eric Clapton, Ringo Starr, Billy Preston, Dave Mason, Peter Frampton, il bassista Klaus Voorman, i tastieristi Gary Wright e Gary Brooker, il batterista Alan White, tutti i Badfinger e i 3 musicisti che si sarebbero poi uniti a Clapton nei Derek and the Dominos registrando il loro gioiello Layla and Other Assorted Love Songs.

 

 

Il risultato è un caleidoscopio di stili che abbraccia il rock (Wah Wah; Art Of Dying), il pop (What Is Life), il country (Behind That Locked Door; Let It Roll), il neo gospel (il successo mondiale My Sweet Lord), l’American style influenzato dalla Band (la cover di If Not for You di Bob Dylan) e addirittura l’inno corale dedicato ai fan dei Beatles che li aspettavano fuori da Abbey Road: Apple Scruffs. Dal punto di vista tematico, i testi riflettono sia il famigerato lato oscuro di George, sia la spiritualità che aveva trovato nell’abbraccio all’induismo. La parola “lord” compare spesso e, con un’incredibile mossa, le voci di supporto verso la fine del singolo My Sweet Lord trasformano Hallelujah nel mantra Hare Krishna allo scopo di suggerire (come Harrison ha scritto nell’autobiografia) che i 2 concetti significano “abbastanza la stessa cosa“.

Non sorprende, quindi, che l’edizione del 50° anniversario proponga All Things Must Pass più gloriosamente che mai, con un remix nuovo di zecca incluso nelle varie versioni: dalla Standard (3 Lp o 2 Cd), alla Deluxe (5 Lp o 3 Cd); dalla Super Deluxe (8 Lp o 6 Cd), alla stratosferica Uber Deluxe (oltre 1.000 $) con pile di vinili, 2 prestigiosi libri e altri oggetti, il tutto racchiuso in una cassa di legno delle dimensioni di una scatola per giocattoli (inclusi i modellini in scala degli gnomi di plastica sull’iconica copertina dell’album). La versione Super Deluxe, invece, include un bel libro pieno di splendide foto – molte delle quali inedite – oltre a reperti dell’archivio privato, come la riproduzione di fogli scritti a mano per quasi tutte le canzoni, insieme a un’esauriente cronologia delle session e annotazioni del diario (“10 gennaio 1969: Left the Beatles“, riguardo alla breve partenza di Harrison durante le sessioni di Let It Be).

Musicalmente parlando, insieme all’audio ad alta risoluzione e alle versioni Blu-ray dell’album ci sono 47 demo e outtake, la gran parte inedite e senza dubbio affascinanti. Molte delle demo circolavano già su bootleg, ma assai più intriganti sono le versioni “grezze” di varie canzoni, in cui George Harrison viene accompagnato da Ringo Starr e Klaus Voorman, che entusiasmano nella loro semplicità. Le versioni “casalinghe” si ascoltano piacevolmente: da una What Is Life drammaticamente diversa, a una semplice e facile Isn’t It A Pity e, cosa più sorprendente, My Sweet Lord con un inedito groove mid-tempo. L’ultima demo è Isn’t It Shitty, versione scherzosa di Isn’t It A Pity con Harrison che si lamenta di dover trascorrere lunghe giornate in studio d’incisione, mentre la parte delle alternative tracks si chiude con diverse jam che comprendono una divertente rievocazione della beatlesiana Get Back nonché Almost 12 Bar Honky Tonk, con Eric Clapton che esegue l’assolo chitarristico.

George Harrison
(courtesy Bridgeman Images)

Anche se si tratta del suo 1° album da solista, Harrison è generoso nel concedere spazio agli altri musicisti: Clapton, ad esempio, fa più assoli di lui ed è evidente in quali canzoni suona Ringo Starr, così come tastieristi, bassisti e il suonatore di tamburello Mike Gibbons dei Badfinger. Tutti, insomma, hanno i loro momenti di gloria.

C’è chi potrebbe obiettare (non senza ragione) che Band On The Run di Paul McCartney o Plastic Ono Band e Imagine di John Lennon siano in realtà il miglior album solista dei Beatles. Ma il cinquantenario di All Things Must Pass evidenzia lo straordinario talento del “Beatle silenzioso” (non certo in questo caso…). Sfortunatamente, però, il suo estro creativo George Harrison non è durato molto più a lungo: nessuno dei suoi successivi dischi si è avvicinato alla grandezza di questo. Ma ad essere sinceri, non molti ci sono riusciti.