Frasi, slogans, bugie calcolate al millimetro, verità sul filo del paradosso. Prima pronunciate, poi stampate nero su bianco: “In the future everybody will be world famous for fifteen minutes”. “I never wanted to be a painter. I wanted to be a tap-dancer”. “If you want to know all about Andy Warhol, just look at the surface of my paintings and films and me, and there I am. There’s nothing behind it”. “I never read, I just look at pictures”. “I love Los Angeles. I love Hollywood. They are beautiful. Everybody’s plastic, but I love plastic. I want to be plastic”… Parole di Andy Warhol (1928-1987) pubblicate sulle prime pagine dello Stockholm Catalogue con in copertina una raffica di Flowers serigrafati ad arte, definito dal fotografo Martin Parr «un bell’esempio di catalogo d’arte inteso come libro d’artista (forma apparentemente iniziata con i dadaisti e i surrealisti), prodotto con alcune fra le più ruvide riproduzioni mai viste e completato da una lunga sezione di foto scattate da Billy Name alla Factory».
Oggetto del desiderio d’ogni serio collezionista (quotazione: da € 1.300 in su) questo iconico volume della Pop Art accompagnò la prima personale dell’artista di Pittsburgh in un museo d’Europa, il Moderna Museet di Stoccolma, a febbraio e a marzo 1968, intitolata semplicemente Andy Warhol. Esposizione che il clima politicizzato di quell’anno non esitò a definire “propaganda filoamericana“. E i critici svedesi? Pur simpatizzando per Claes Oldenburg e James Rosenquist, Bengt Olvång scrisse sul quotidiano Aftonbladet: “Non possiamo non riconoscere a Warhol la posizione di ricercatore intenso e disilluso della verità”. Decisamente “tranchant” Ulf Linde, che sullle colonne del Dagens Nyheter non si fece scrupolo di annotare: “Come una parola perde il proprio significato se ripetuta a oltranza, così succede alle immagini. E ciò che rimane non è altro che superficialità”. Mezzo secolo dopo, Warhol 1968 ha rimesso in scena quella mostra. Tale e quale. Imprescindibile come lo era stata all’epoca. Disposta, come allora, a esplorare l’opera warholiana dalla prospettiva sessantottina. Fino a quell’anno, infatti, Warhol si era svelato come un mix di fascinazione e repulsione nei confronti dei massmedia e del consumismo. Da ex pubblicitario, aveva ben compreso i meccanismi commerciali della nostra società e li aveva trasferiti con monotonìa e apparente indifferenza nella propria arte. Dopo Stoccolma, Warhol 1968 si trasferisce a Malmö enfatizzando le turbolenze politiche di quell’anno (l’assassinio di Martin Luther King e quello di Bob Kennedy, il conflitto in Vietnam, l’invasione sovietica della Cecoslovacchia) e ricordando in particolare che il 3 giugno ’68 la femminista Valerie Solanas, autrice dello SCUM Manifesto, lo ridusse in fin di vita a colpi di pistola; e da quel momento il fare arte warholiano divenne cinico, votato al vil denaro e veicolato dalla sua firma da tramutare in “logo” buono per ogni (massmediologica) occasione. Oltre a rimettere in gioco la Cow Wallpaper (quintessenza dell’arte Pop), Marilyn Monroe in bianco e nero, svariate versioni della Brillo Box, la Electric Chair e i Flowers, questa rassegna dà inoltre ampio risalto a immagini d’epoca, scritti e annotazioni critiche. Per ricordare, rivisitandola ancora, quella straordinaria “prima” europea.
Warhol 1968
Fino all’8 settembre 2019, Moderna Museet Malmö, Ola Billgrens plats 2–4, Malmö
tel. 0046-8-52023500
Foto: Interior from the exhibition Andy Warhol at Moderna Museet, 1968, © Lasse Olsson/DN/SCANPIX
Moderna Museet exhibition catalogue, 1968
Ten-Foot Flowers, 1967
Electric Chair, 1967
Marilyn Monroe in Black and White (Twenty-Five Marilyns), 1962, © Albin Dahlström
© 2018 Andy Warhol Foundation for the Visual Arts/ARS, New York/Bildupphovsrätt 2018