Seattle è una città nello stato di Washington, sulla costa ovest degli Stati Uniti. Musicalmente, viene ricordata per aver dato i natali a Jimi Hendrix e per essere stata la culla del grunge, il movimento che ha scosso l’ultima rivoluzione (se così possiamo chiamarla) in ambito rock. Ma la città portuale è anche il luogo in cui hanno mosso le prime esperienze personaggi del calibro di Ray Charles e Quincy Jones; città che aveva una florida scena jazz, grazie a club importantissimi ora quasi tutti chiusi. Su tutti spiccava il Penthouse, fondato da un collezionista italiano, tale Charlie Puzzo, barista che amava il jazz prima di tutto.

Il Penthouse si trovava al pianterreno del Kenneth Hotel, al 701 della First Avenue, arteria principe di Seattle. Qui il 30 settembre 1965 John Coltrane si esibì in una performance incentrata sull’appena pubblicato A Love Supreme, fra i massimi capolavori della musica afroamericana. Il leader, al sax tenore e soprano, era affiancato da Pharoah Sanders al sax tenore, Carlos Ward al sax alto, Mc Coy Tyner al pianoforte, dai 2 contrabbassisti Jimmy Garrison e Donald Rafael Garrett, da Elvin Jones alla batteria. Gruppo esteso, allo scopo di espandere il messaggio coltraniano nel miglior modo possibile. Quel 1965 fu un anno cruciale per lui: improvvisava, ormai, senza progressioni di accordi prefissate e non si curava della tonalità di partenza dei brani che suonava. Trascorreva intere giornate a esercitarsi, a sperimentare, alla ricerca di quel “nuovo” che in realtà aveva già trovato e portato a compimento.

John Coltrane (1926-1967)

Non importava la dimensione estetica, Coltrane cercava nella musica un aspetto più umano e spirituale; una via di comunicazione diretta con la trascendenza, con l’ineffabile, con il Creatore. La sua era una missione, ormai. Era un viaggio nell’inconscio per poi approdare a una musica che fosse un viatico verso la beatitudine, verso il nirvana, verso il raggiungimento di uno stato di pace e di completezza totali. Era iniziato con My Favorite Things, terminerà con Ascension, ma nel mezzo ci saranno tante stazioni intermedie contrassegnate dal genio e dalla magia di un artista mai domo, sempre alla ricerca del bello, del nuovo; sempre ispirato, sempre pronto a cogliere nuove suggestioni. John Coltrane vive la propria musica 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno. Forse è per questo che di lui esistono poche foto in cui sorride.

A Love Supreme è uno schiaffo al jazz vecchia maniera. A quel bop che si suona addosso e non ha più il coraggio di osare, di guardare avanti. Garrison non usa più il walking bass, ma spezza il ritmo mentre i suoi compagni sono intenti a fare altrettanto. Jones esprime una percussione “totale“, basata su tutti gli elementi del drum kit; una percussione “circolare“, che non è più solo un accompagnamento ma un vero e proprio discorso su tamburi e piatti che va a sottolineare ciò che sta accadendo intorno a lui. Tyner rimane spesso in sordina, al punto che poco dopo abbandonerà il gruppo, ma i suoi interventi sono sempre di una lucidità e di una profondità espressiva senza eguali. Un autentico alter ego per Coltrane, che poteva contare sulla fantasia ritmica e sulla maestria melodica del pianista. A questi si aggiunsero l’iconoclasta Sanders, allievo quanto mai prezioso e ossequioso della lezione del Maestro; Garrett, che specie al clarinetto basso conferiva un alone di misticismo e mistero alla musica; e Ward, ancora acerbo, ma capace di sortite intelligenti e ispirate.

A Love Supreme Live In Seattle (Impulse!) è un disco d’importanza storica. Raramente John Coltrane suonò dal vivo la suite; e in più, questa registrazione testimonia come la band stesse diventando un vero collettivo in cui la musica prendeva il sopravvento su ogni forma di individualismo. È un album deflagrante, una molotov lanciata contro il vecchio mondo del jazz arroccato su semplici stilemi hard bop e contro quei musicisti poco inclini a rischiare. Coltrane risvegliò tutto: spalancò le porte verso l’ignoto, verso le infinite possibilità della respirazione circolare, delle scale pentatoniche indiane, dei raga, dell’improvvisazione collettiva tout court. Sapeva di essere un leader e che i suoi sodali lo avrebbero seguito in ogni avventura egli avesse intrapreso, in ogni direzione egli si fosse spinto.

Impavido, proseguì nella sua ricerca. E se c’è un merito da aggiungere ai già tanti che Coltrane ha nella storia e nell’evoluzione del linguaggio jazzistico, è certamente il coraggio che questa registrazione mette in evidenza. Un coraggio senza limiti, che lo portò a eseguire dal vivo una suite già di per sè non facile, da reinventare e reinterpretare alla guida di un ensemble quanto mai coeso e preciso nell’esposizione. Aknowledgement: 4 semplici note (FA, LA bemolle, FA, SI bemolle) ed eccoci trasportati in una dimensione completamente nuova, mai ascoltata sinora; in una musica densa, magmatica, in cui ognuno ha un ruolo ben definito per la riuscita finale. È il prologo a un’esplosione di note e di emozioni, dove magia e liturgia diventano tutt’uno; dove il dialogo tra uomo e divinità avviene senza intermediari. Se ci pensate, da qui nascono i successivi lavori di Alice Coltrane, di John Mc Laughlin, perfino di Carlos Santana che già nell’album Abraxas (1970) aveva cercato di esplorare in chiave rock la lezione coltraniana.

Trane è stato un grande rivoluzionario che partendo dal blues arrivò all’atonalità, creando un culto legato al suo personalissimo modo d’improvvisare. Nessuno, come lui, ha saputo influenzare la musica subentrata nei decenni successivi. Sulla facciata della sua casa natale ad Hamlet, North Carolina, si legge : “John Coltrane Messiah Jazz“.  Credo che nessun’altra definizione possa esprimere meglio il contributo che egli ha dato a questa musica, che in questo disco assume ancor più valore poichè spontanea, non filtrata da esigenze di tempo e tantomeno da logiche di mercato.

Si deve andare sempre avanti, più avanti e più in profondità che si può. Non puoi fermarti nel tuo viaggio. La mia musica è l’espressione spirituale di ciò che sono ora, la mia fede, il mio sapere, la mia essenza. Credo che la musica possa rendere il mondo migliore, e se ne sono capace voglio contribuire a farlo. Voglio parlare all’anima delle persone“. A Love Supreme Live In Seattle parla al cuore e all’anima di noi umili ascoltatori. Ancora una volta, John Coltrane si rivela il Messia di un nuovo modo d’intendere la musica.