“Per quanto mi riguarda sono tra la famiglia gli alberi e i versi. Abbiamo comprato una casa dove c’è un grande giardino di quasi un decimo di arpento, nel quale non ho mancato di piantare dei liquidambar, dei sophora, dei tuia, degli abeti, i quali, se vivo abbastanza, verranno un giorno a trovarmi dalla finestra”

Alessandro Manzoni,  febbraio 1814

Dopo il bentornato alla VOCE in Giardino, dove potete pranzare o cenare rivivendo l’incanto di un luogo che ha ispirato la vita e la produzione dello scrittore, poeta e drammaturgo milanese, il Gruppo Aimo e Nadia (realtà di riferimento della cultura gastronomica italiana) estende il proprio indissolubile legame nei confronti della Casa manzoniana.

Nel suggestivo spazio all’aperto del Giardino appartenuto al letterato – che a Milano unisce le Gallerie d’Italia, piazza Scala e il Museo di Intesa Sanpaolo alla sua dimora – è infatti nato il Desco di Alessandro Manzoni dedicato a un percorso culinario immersivo in 4 menù (fra i piatti segnaliamo le polpette di quinto quarto con prugne e noci di Como; i ravioli di farina di sorgo con borragine, maggiorana e raveggiolo; il pollo al cognac con gamberi e sous parisien; la cicoria con olio di noci, stracchino e lardo di Colonnata; le tagliatelle e cibreo di rigaglie; la rasumada con fragole e tamarindo; la torta coi bischeri; il pan de mej con panna e mosto cotto) che interpretano momenti e aspetti della sua vita quotidiana in sintonìa con le colture e le culture alimentari della Lombardia, della Toscana e della Francia, luoghi dove visse lo scrittore.

Avvolto dal profumo delle magnolie a lui tanto care, il Desco di Alessandro Manzoni è il fulcro di un’esperienza circolare che vede raccontata e descritta ogni portata attraverso citazioni dalle sue opere. Si tratta, insomma, di un’autentica scoperta di sapori, ingredienti e pietanze del passato da lui amati; di un’esperienza esclusiva che vede la storia, l’arte e la gastronomia trovare la loro ideale sintesi.

Il Desco di Alessandro Manzoni da VOCE in Giardino
via Manzoni 10, Milano
tel. 3493273374
info@voceaimoenadia.com

IL DESCO DI ALESSANDRO MANZONI

Sedersi a una tavola intitolata ad Alessandro Manzoni impone una misura culturale, una civile eleganza, la rispettosa interpretazione dei doni della natura e del lavoro dell’uomo, di tutti gli uomini.

Non si hanno molte notizie sul regime alimentare della famiglia Manzoni, gestito dai domestici, prima con qualche attenzione alle preghiere di Enrichetta e forse di donna Giulia, poi con ubbidienza ai dettami economici e salutistici di donna Teresa. Festose certo le tavolate con ospiti, soprattutto a Brusuglio, a contatto con la campagna, con i frutti di stagione, con l’economia contadina, e in casi fortunati con qualche vittima della cacciagione.

Le troppe pagine dell’aneddotica manzoniana devono limitarsi a sottolineare (ma lo fa gustosamente anche Gadda, cui si deve il recipe del risotto alla milanese) la sua predilezione per la cioccolata, la passione, anche da viticultore, per i bianchi francesi, salvo poi “ripiegare” sui rossi della Val Policella (ma che avrà delibato a Parigi, a Firenze, a Siena, nelle rapide corse parlamentari a Torino?).

Nel suo grande romanzo dominano il pane e la polenta di grano saraceno (nel Fermo e Lucia è detta fràina) o di saggina (sorgo), si affacciano le polpette (il venerdì 10 novembre 1628: saranno state di carne?), e all’indomani lo stufato, all’osteria della “Luna piena” (ma allora anche al sabato era proscritta la carne). Nella terza osteria, quella di Gorgonzola, “A Renzo quel poco mangiare era andato in tanto veleno” (I promessi sposi XVI).

La cena più bella è vissuta dal “primo uomo della nostra storia” al ritorno in paese, nella casa di un amico: “Tornò con un piccol secchio di latte, con un po’ di carne secca, con un paio di raveggioli, con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta sulla tafferìa, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l’uno della visita, l’altro del ricevimento“, cena bellissima per “la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri” (cap. XXXIII). Agnese e Lucia, con Don Abbondio e Perpetua, avevano onorato (cap. XXIX) la “povera tavola” del sarto, ricca di “un piatto di buon viso“, ma anche di “castagne primaticce” diricciate, di quattro pesche scosse dalla pianta e di quattro fichi raccolti “de’ più maturi“, di un vino spillato dalla botticina: “e desinarono, se non con grand’allegria, almeno con molta più che nessuno de’ commensali si fosse aspettato d’averne in quella giornata“.

Si tratta sempre, per i “vili e meccanici” della Lombardia, che era stata di Bonvesin de la Riva ed era di Giovanni Rajberti, di “povere cene“, a fronte del rumoroso pranzo dei signori nel palazzotto di Don Rodrigo, di quelli “festeggiati” dalla fanciulla destinata al convento, e di quello compostamente nuziale offerto ai due promessi finalmente sposi: ma non ne vengono annotati, né dall’anonimo né dal rifacitore, i menù.

Gli aggettivi imbanditi sulle mense manzoniane sono parca, frugale, sobria, aggettivi evangelici e francescani. Il giovanissimo Alessandro, sulle orme e oltre le orme di Parini, aveva ironizzato con tagliente sarcasmo sulle “superbe imbandigioni” (come dice La Resurrezione) dei ricchi nel sermone con titolo Panegirico a Trimalcione: il nome prelevato dal Satyricon di Petronio si addice al ricco e rozzo signore cui un poetastro, spinto dalla fame (“dal lamentar del ventre“, come si legge e rilegge), dedica dei versi servili, disonorando la poesia: “Ma dove siamo, o Febo? Io te sì ratto /seguìa con l’ale del pensier su l’alte / cime di Pindo, che sul desco adorno / il fagian si raffredda…“.

Nel Fermo e Lucia (III, IV) si leggeva di un “pranzo” del Cardinal Federigo, a pane e acqua spillata da una sorgente. Commentava Manzoni: “La ragione dice che quel tozzo di pane, solo cibo d’un uomo che avrebbe potuto nuotare nelle delizie, e che se ne asteneva per un sentimento profondo della dignità umana, e per dar pane a chi ne mancava, quel tozzo di pane mangiato tra le fatiche d’un ministero di misericordia, di pace, e di pietà, dovrebb’essere una rimembranza più cara agli uomini“, che non quella di quel celebrato (da Virgilio e da Dante) Gaio Fabricio Luscino romano, “uomo che era sobrio per potere esser forte contra gli uomini“.

Una premessa forse inattesa per un “giorno di convito“, ma, a ben riflettere, non manda di traverso i prelibati cibi offerti sul “desco di Alessandro Manzoni“, anzi: è la misura aperitiva necessaria e utile alla “allegrezza” degli incontri, alla civiltà umanistica della mensa, alla sapiente (ri)conoscenza della storia e dell’arte del cibo.

Dott. Angelo Stella
Presidente del Centro Nazionale Studi Manzoniani