Giugno 1978, seconda settimana del mese. L’album più venduto in Inghilterra è la colonna sonora di Saturday Night Fever, ma in Top Ten ci sono anche gli ABBA e un’altra compilation disco; i Thin Lizzy con il doppio Live And Dangerous accanto a nomi nuovi e arrembanti come Stranglers, Ian Dury and the Blockheads e la Tom Robinson Band. È un mercato polarizzato: da una parte la musica d’evasione e da ballare, dall’altra il punk e la new wave che piacciono alla nuova generazione rock.

2 giorni prima che quella classifica diventi pubblica, negli scaffali dei negozi di dischi arriva un Lp che sembra sbarcare da un altro pianeta. Quantomeno da un’altra epoca. In copertina, la foto sfocata di una donna accanto al balcone di un condominio vuoto: un’immagine che trasmette un senso di solitudine e di malinconìa percepibile, a tratti, anche nei solchi del disco. Il retro della busta è ancora più indicativo: oltre alle foto in stile segnaletico dei 4 componenti del gruppo in basso, fra i loghi delle etichette Vertigo e Phonogram spicca quello della Fender Stratocaster, color rosso d’ordinanza, con iscritto il nome della band, Dire Straits (che in inglese significa essere alle strette, in grosse difficoltà e con l’acqua alla gola).

Un messaggio chiarissimo e inequivocabile, perché quella è la chitarra elettrica preferita dal bandleader Mark Knopfler (che ne possiede 2 modelli, 1 del 1961 e 1 del 1962) e i suoi fraseggi — in un momento in cui gli assoli sono pressoché banditi e considerati un ingombrante retaggio del passato – dominano il disco dall’inizio alla fine. Non è uno sbarbatello, Knopfler, ma un 28enne già un po’ stempiato nato in Scozia e cresciuto a Newcastle, che aveva studiato giornalismo e lavorato come cronista presso lo Yorkshire Evening Post di Leeds prima di diplomarsi in inglese e trasferirsi a Sud; di giorno insegnante presso un college dell’Essex, di sera musicista a Londra in un gruppo pub rock in cui suona anche il batterista Pick Withers, veterano del beat e già nei Primitives accanto a quel Mal (Ryder) che aveva trovato il suo Eldorado in Italia. A loro si uniscono in seguito il fratello minore di Mark, David, alla chitarra ritmica e il suo coinquilino John Illsey, un bassista originario di Leicester, ma non ci sono dubbi su chi tenga le redini del gruppo. Knopfler sr. è il cantante solista, scrive tutte le canzoni e suona la chitarra con notevole gusto, un tocco elegante ed educato, un fraseggio sciolto e pulito che fa a pugni con il sound del rock del momento, con la sua aggressività e la sua approssimazione esecutiva.

Ricordo la sorpresa di tutti noi, allora giovani appassionati, quando alla radio ascoltammo Sultans Of Swing e, procuratici l’Lp, lo mettemmo sul piatto del giradischi. “E chi cazzo sono questi? Da dove arrivano? ”, furono le prime esclamazioni ammirate e stupefatte. “Caspita, ecco un nuovo gruppo rock che SA SUONARE! Inaudito! ”. Sembrava quasi un’eresìa, in un momento in cui erano altri valori a contare (la furia iconoclasta, l’attitude, il look, la voglia d’urlare la propria rabbia, di stupire il mondo e di stuprare gli strumenti alzando al massimo il volume e il livello di distorsione). Le canzoni dei Dire Straits e di Dire Straits, invece, suonavano come una via di mezzo fra quelle di Bob Dylan (anche per via della voce roca, pigra e strascicata di Mark) e quelle rilassate e ondulate, di J.J. Cale, con un tocco di pub rock e una chitarra che evocava il classico fingerstyle di Chet Atkins (con cui Knopfler avrebbe collaborato in seguito) e il piglio di Hank Marvin degli Shadows, i vecchi eroi del country americano e del 1° rock and roll britannico.

Mark Knopfler
© Gie Knaeps/Getty Images

Che ce ne facciamo, oggi, nel 1978, di una cosa del genere? ”, pensarono in un primo momento i discografici del gruppo sparsi in giro per il mondo, dopo che sul quartetto avevano deciso di puntare con fiuto a dire il vero straordinario una nuova recluta dell’ufficio artistico della Phonogram, Johnny Stainze, e il veterano Muff Winwood (fratello maggiore di Steve), che s’incaricò di produrre il 1° album senza mai calcare la mano, lasciando invece che la band si esprimesse spontaneamente con un suono rodato nelle apparizioni dal vivo.

Knopfler era già un tipo maturo, riflessivo e di buona cultura, che quelle doti riversava nelle sue canzoni. Canzoni umide di pioggia e d’acqua di fiume, Tyne o Tamigi che fosse, fra il cuore assetato d’amore di Water Of Love (con le note di una slide, una National del 1938) e i baci rubati di notte sul fronte del porto di Down On The Waterline: la prima appartenente al versante più morbido, semiacustico e intimista del disco, la seconda svelta e galoppante come Sultans Of Swing, nata dall’acume cronistico e dallo spirito d’osservazione di Knopfler, che una sera in un piccolo club si era ritrovato di fronte sul palco una scalcinata jazz band di piccolo cabotaggio per i cui impacci provava evidentemente empatìa (non gli era sfuggito l’ironico contrasto fra il nome altisonante del gruppo, “i Sultani dello Swing ”, e la sparuta platea che aveva assistito alla sua esibizione).

Quando l’Lp venne stampato e distribuito in Olanda, i dj radiofonici locali trasformarono il brano in una hit, decine di migliaia di copie del disco furono esportate in Germania dove Dire Straits diventò 1 dei dischi più venduti di sempre e qualcosa di simile accadde poi anche in Francia e in Australia, dove l’album schizzò al N°1 in classifica, negli Stati Uniti (N°2) e finalmente anche in patria (N°5). Il resto è storia, compreso quel celeberrimo assolo che trasformò istantaneamente Mark Knopfler in un nuovo guitar hero britannico 10 anni e più dopo Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page.

Che non sarebbero stati uno one hit wonder lo si capiva ascoltando il resto delle canzoni contenute nel vinile: lo svelto country & western che più Cale non si poteva di Setting Me Up (ripresa proprio da Clapton e nel celeberrimo live Just One Night da lui affidata alla voce di Albert Lee); la felpata e sommessa Six Blade Knife; una Southbound Again scoppiettante che raccontava dei primi eccitati viaggi verso Sud e la capitale; una In The Gallery dalle movenze e dal linguaggio raffinato che stigmatizzava certe opere d’arte moderna esposte nelle gallerie londinesi; una stupenda cartolina dal Wild West End fra i caffè, i negozi di chitarre e i night club di Soho, le corse in autobus e le camminate fra Shaftesbury Avenue e Chinatown adocchiando le belle ragazze che passavano per strada. Knopfler ritraeva così una Londra bohémien e romantica come la New York cantata da David Johansen e da Willy DeVille. E lo stesso faceva fra le ambientazioni notturne dell’ovattata Lions (dove i leoni del titolo sono quelli bronzei e imponenti che presidiano Trafalgar Square).

Sul solido e semplice canovaccio di basso, batteria e 2 chitarre, Mark cantava con un linguaggio già ricco, immaginifico e a tratti decisamente dylaniano di sogni di gloria, di delusioni amorose, di colpi di fulmine e di vita quotidiana, un po’ scapigliata e vagabonda, fra le luci sfavillanti e gli anfratti bui della grande metropoli. Con uno sguardo acuto, penetrante e una buona dose di humour, senza mai una nota fuori posto e con una precisione quasi chirurgica nel momento in cui il rock and roll era tutto disordine, fragore e tumulto. «Per sfondare sul mercato americano», osservava l’anno dopo sul suo tour diary Joe Strummer dei Clash, gli artisti inglesi dovevano «farsi il mazzo come Elvis Costello, stringere mani e dispensare sorrisi come i Boomtown Rats o avere il suono dei Dire Straits». Fu buon profeta, perché da lì a non molto e a partire dal 3° album Making Movies (registrato, riconobbe Knopfler, con la ferma intenzione di «fare un disco che fosse destinato a durare») i Dire Straits sarebbero diventati il paradigma dei rocker da stadio degli anni 80. Perdendo, inesorabilmente, la fragranza spontanea e la freschezza un po’ ingenua di quel loro indimenticabile debutto.

Dire Straits (1978, Vertigo/Phonogram)