Nel dicembre 2019 a Wuhan, in Cina, si riscontravano i primi casi di Covid-19. Nel maggio 2022 l’esercito russo occupava la città ucraina di Mariupol. Nell’aprile 2023 la cantautrice Lucinda Williams pubblicava il suo memoir Don’t Tell Anybody The Secrets I Told You. Nel settembre 2024 la città di New York organizzava un summit per trovare una soluzione all’emergenza sanitaria provocata dalla proliferazione incontrollata di topi nell’area metropolitana.

Da queste schegge sparse d’attualità, e da situazioni personali anche drammatiche, Suzanne Vega ha preso spunto per comporre le canzoni di Flying With Angels, il suo 1° album di brani inediti dai tempi di Tales From The Realm Of The Queen Of Pentacles (2014). Alla faccia del boss di Spotify, Daniel Ek, che invita gli artisti ad abbandonare il concetto obsoleto di album e a sfornare pezzi nuovi con regolarità per mantenere vivo il contatto diretto con il pubblico: Suzanne appartiene a un altro mondo e a un’altra generazione, quella dei singer-songwriters che tirano fuori carta e penna solo quando sentono di avere qualcosa da dire.

E anche se Flying With Angels è un’opera artistica personale, non un manifesto politico o un bollettino informativo, stavolta ne aveva molte di cose da dire la cantautrice newyorkese d’origini californiane che nel corso dei concerti italiani di poco meno di 2 anni fa in compagnia del chitarrista Gerry Leonard aveva presentato in anteprima 1 pezzo che ritroviamo in questo nuovo disco: Last Train From Mariupol, succinto lamento in forma di valzer e di dolente filastrocca appoggiato su una semplice frase ripetuta di chitarra acustica e il cui pathos drammatico è amplificato da un arrangiamento in crescendo, scritto di getto dopo la visione dei notiziari serali che raccontano gli orrori della guerra in Europa Orientale. Bastano 4 strofe a un’abile storyteller come lei, per descrivere una tragedia immane immaginando una fuga di profughi a bordo di un ultimo treno su cui sale metaforicamente anche Dio, “spaventato da tutto ciò che stava vedendo ” (ai cori c’è Ruby, la figlia avuta dal precedente matrimonio dell’artista con il produttore Mitchell Froom).

Leonard, in passato collaboratore di David Bowie, è anche il produttore e l’alter ego irrinunciabile di 1 disco registrato velocemente vicino a casa – al GB’s Juke Joint di Long Island – e in cui le sue chitarre elettriche hanno un ruolo preminente. Non è un guitar hero che ama esprimersi per mezzo di assoli, semmai un pittore e uno scultore di suoni che usa il suo strumento come un pennello o uno scalpello; un ottimo cesellatore di soundscapes che riveste le canzoni di Suzanne d’abiti anche inconsueti. Nel brano che intitola il disco, per esempio, si ricorda dei suoi trascorsi a fianco di Laurie Anderson, a cui anche la concittadina Suzanne ha sempre guardato con ammirazione: arrivano dal suo mondo quei fluttuanti riff di chitarra che proiettano una tipica canzone in stile Vega nella stratosfera e che la stessa autrice ha paragonato «al ronzìo incessante di un motore», rarefatto ed etereo tappeto sonoro su cui dispiega 1 brano che parla di forza interiore, «dell’idea di essere trasportati in alto da qualcosa che è più forte di te, del sentirsi sostenuti da un’energia nel bel mezzo di una situazione d’emergenza». Un analogo desiderio di trascendenza abita anche Alley, sognante uptempo elettrico in cui Suzanne s’immagina libera dalla forza di gravità e in viaggio verso il sole; leggera come una piuma, “galleggiante nell’aria ” e “ascendente come una preghiera ”.

Laico o religioso che sia, è un afflato mistico che si affianca al respiro sensuale e romantico e al groove morbido di Love Thief, la vera sorpresa musicale del disco: un carezzevole pop soul tra soft funk e Motown come quelli che Suzanne ascoltava da ragazzina sulle frequenze di WBLS, la stazione radio r&b di New York con cui ha imparato ad amare Marvin Gaye e Curtis Mayfield, Bill Withers e Isaac Hayes. È un altro raggio di luce, probabilmente una reazione alle forze maligne e opprimenti che popolano altri titoli della raccolta, quelli in cui le chitarre di Leonard e gli strumenti della band assemblata in studio (Jeff Hill al basso, Aaron Johnston alla batteria, Daniel Mintseris e Jamie Edwards alle tastiere, Catherine RussellRuby Froom ai cori) si fanno più densi e più robusti. In Witch si materilizzano a un certo punto dei power chords alla Who e il sound teso e tambureggiante serve a evocare e ad esorcizzare un dramma familiare vissuto da Suzanne e da suo marito, avvocato e poeta colpito da 2 infarti e che ancora oggi lotta per riconquistare il pieno uso della parola (lo strumento che utilizza per professione e per esprimere la sua personalità artistica).

Il jangle rock accattivante e la slide di Speakers’ Corner, accompagnano invece una riflessione sul mondo moderno della comunicazione, intrappolato fra il sacrosanto diritto alla libertà d’espressione messo in pericolo dai governi autoritari e la copertura dell’anonimato che i social media garantiscono anche a chi li impiega per diffamare e lanciare attacchi verbali violenti e ingiustificati; il rock and roll sporco e punkeggiante di Rats, esplicitamente ispirato ai concittadini Ramones come ai Fontaines DC (irlandesi come Leonard), dipinge un quadro realisticamente apocalittico della Grande Mela diventata durante la pandemìa terra di conquista d’un esercito di roditori affamati, bellicosi e portatori di malattie.

«Il Covid è stato una forza altamente distruttiva», spiega Vega, «e gran parte di quest’album si svolge in quello scenario»; oltre che «in un’atmosfera di lotta», «la lotta di chi cerca di sopravvivere, di parlare, di dominare, di vincere, di scappare, di aiutare qualcuno o semplicemente di vivere la propria vita». Sono personaggi reali e immaginari, quelli di Flying With Angels, a volte protagonisti di un dylaniano simple twist of fate. E proprio 1 classico di His Bobness, I Want You, diventa in Chambermaid il pretesto di un coraggioso e riuscito gioco di prestigio: Suzanne ne conserva l’inconfondibile linea melodica ma ne ribalta la prospettiva per raccontare i sogni e i desideri della cameriera d’albergo che al protagonista della canzone (Dylan stesso) confessa di avere rubato un bacio furtivo. Scandito da 1 drumming secco, da 1 piano elettrico e da 1 canto quasi rappato, il rock blues di Lucinda è invece un affettuoso e chiaroscurale ritratto della collega Lucinda Williams, la forte e fragile “Dusty Springfield del Sud ” in pantaloni di pelle e coda di strass e dalle tante facce; un angelo che sa ruggire e trasformarsi in una belva.

Sangue irlandese scorre anche nelle vene di Suzanne, che alla città costiera di Galway dedica l’ultima canzone in scaletta, una riflessione sulle sliding doors che la vita ci pone di fronte e che ha come spunto un lungo e infruttuoso corteggiamento. Con la sua chitarra acustica e altri strumenti tradizionali (un bouzouki ? Una fisarmonica?) è una ballata Celtic folk che Suzanne avrebbe forse potuto cantare anche all’epoca dei suoi esordi nel Greenwich Village di metà anni 80; non fosse per la voce oggi più roca, sensuale e ricca di sfumature ma sempre incline a toni sommessi. Sembra quasi un ritorno al punto di partenza e alla semplicità musicale di quei tempi, ma è solo apparenza ed è lei stessa a spiegarlo: a Galway non c’è mai stata, e proprio per questo nel contesto del brano «la città rappresenta un futuro che ancora deve essere scoperto». «Il compito di un narratore», aggiunge, «è di portarti in un luogo dove non sei mai stato, non solo quello di mostrarti ciò che già conosci». Con Flying With Angels disco maturo, sfaccettato, elegante, cesellato con cura, ricco di conferme ma anche di sorprese – ci riesce benissimo.