Il bar è il perno attorno a cui gira This Is Not A Drill di Roger Waters: 4 concerti a Milano e 3 a Bologna nell’ambito di un tour mondiale partito nel luglio del 2022 dagli Stati Uniti. È il posto dove colui che si fregia del titolo di «creatore degli anni d’oro dei Pink Floyd» manda affanculo con un messaggio preregistrato a inizio show chi ama la band ma non sopporta le sue tirate politiche. Ma è anche un luogo virtuale di socializzazione, di fratellanza e inclusione, di discussione franca e aperta sui problemi che affliggono l’umanità e mettono a rischio il suo futuro. Lo yin e lo yang del suo nuovo concept e di una personalità geniale, megalomane e senza mezza misure, che ancora fa discutere e incazzare per le sue posizioni fuori linea sulla guerra in Ucraina, i suoi battibecchi dispettosi con David Gilmour, il suo presunto antisemitismo: persona non grata in Polonia e osteggiato dalle autorità tedesche, bersaglio di un velenosissimo tweet della moglie di Gilmour, Polly Samson, e ostinatamente convinto delle sue posizioni e delle sue scelte artistiche.

Roger Waters
© Francesco Prandoni

Compresa quella di cominciare lo spettacolo con la rivisitazione che ai gilmouriani potrà sembrare blasfema di Comfortably Numb, proposta nella versione riregistrata di recente mentre i musicisti, a eccezione del bassista Gus Seyffert, sono ancora nascosti sotto la grande croce nera che sta al centro dell’arena. Monca del mitico assolo del chitarrista, si trasforma in una dolente marcia funebre di cui i vocalizzi femminili finali di aroma mediorientale chiariscono il messaggio: i protagonisti della canzone, oggi, siamo tutti noi, imbambolati e narcotizzati davanti alle violenze e alle brutture del mondo.

La croce si tramuta in un megaschermo a più facce e si alza per rivelare subito dopo gli altri musicisti della band: Dave Kilminster e Jonathan Wilson alle chitarre; Robert Walter e Jon Carin alle tastiere (quest’ultimo, veterano floydiano, anche alla chitarra e seconda voce); Joey Waronker alla batteria; Seamus Blake al sassofono; Shanay Johnson e Amanda Belair ai cori. Stanno in mezzo, nel loro immaginario bar cui è dedicato l’unico inedito in scaletta, proposto nella prima parte dello show e poi con una “reprise” alla fine: una ballad riflessiva e cantautorale con Waters seduto al pianoforte e un testo in cui si mescolano gli homeless rannicchiati nei loro cartoni, la resistenza eroica dei nativi americani e una serie di dediche: al fratello maggiore morto lo scorso anno, alla quinta moglie Kamilah Chavis e a Bob Dylan, cui Roger ha rubato un frammento di Sad Eyed Lady Of The Lowlands.

Torna in scena, ancora una volta, l’idea di teatro rock che da sempre affascina l’inglese; dopo che il progetto iniziale, abbandonato per impraticabilità, prevedeva di combinare musica e cinema «alla maniera di grandi registi come Michelangelo Antonioni». Pur imponente, l’allestimento è meno spettacolare di quella del tour precedente, Us + Them, ma il tema non è dissimile: noi e loro, i diseredati della Terra e le vittime della violenza dei padroni del mondo; noi contro di loro, i poteri costituiti di cui parla l’incalzante e ossessiva The Powers That Be (ripresa dall’album solista Radio K.A.O.S., 1987), i potenti del pianeta che con l’aiuto delle forze di polizia ci tengono schiavi e incatenati massacrando chi osa dissentire.

The Bravery Of Being Out Of Range denuncia le guerre-Risiko dei nostri giorni, Ronald Reagan, Donald Trump e Joe Biden (che «ha appena cominciato»…) vengono presentati come criminali di guerra, mentre quando canta Déjà vu Waters indossa una kefiah palestinese, appena prima di farci rivedere le immagini di un bombardamento d’innocenti a Baghdad svelato al mondo da Chelsea Manning, da Wikileaks e da Julian Assange. Ha la vis polemica, il cieco furore e la passione travolgente di un Oliver Stone; e pazienza se come quelle del regista americano le sue analisi politiche risultano a volte un po’ manichee e grossolane: il suo è uno spettacolo rock and roll, non una conferenza all’ONU (dove peraltro è stato recentemente chiamato a tenere un discorso sulla guerra).

Non si è mai visto un pacifista così incazzato, né uno show in cui “fuck” è la parola più pronunciata e proiettata sui megaschermi (viene mandato affanculo anche l’antisemitismo, comunque). Quando ripropone i pezzi dei suoi album storici, Roger non rinuncia alla sua iconografia classica, amatissima e leggendaria: mentre canta Sheep e dipinge il futuro distopico da lui stesso immaginato sulle orme di George Orwell, di Aldous Huxley e del discorso di Dwight David Eisenhower sul complesso militare industriale, il pubblico guarda con il naso all’insù la pecora che volteggia sulla sua testa; poco dopo sale in volo anche l’immancabile maiale con il suo inequivocabile e cinico messaggio: togliere ai poveri per dare ai ricchi. All’inizio del secondo set, con In The Flesh e Run Like Hell torna la simbologia nazista di The Wall mentre Waters, giubbotto di pelle nera e occhiali scuri, si fa passare da un soldato un mitra sventagliando contro il pubblico raffiche virtuali e ad altissimo volume.

Mischia politico e privato, abbandonandosi ai ricordi nella sezione di 3 brani dedicata a Wish You Were Here: scorrono immagini di Syd Barrett e degli altri Floyd (MAI di Gilmour); memorie dei sogni di gloria coltivati con Syd dopo avere visto un concerto di Gene Vincent a Londra; confessioni di paranoie e semi di follia che s’insinuano nella sua mente mentre affronta il divorzio dalla prima moglie. La title track del disco è un momento di svolta del concerto: quello in cui la Musica prende finalmente il sopravvento sulle immagini e sugli effetti speciali. 3 chitarre acustiche, le luci che colorano di rosso l’arena rivelando i volti e l’emozione del pubblico, Roger che percorre la passerella e fa un bagno di folla: la stessa passerella su cui si avvicendano poi le coriste, l’ottimo sassofonista Blake con il suo assolo in Shine On You Crazy Diamond mentre in fondo Carin ricama alla pedal steel, Kilminster con i suoi precisi e ficcanti assoli rock e la sua chitarra decorata da una rosa.

Nella seconda parte dello show arriva l’attesa celebrazione del cinquantenario di The Dark Side Of The Moon, di cui viene riproposta per intero e in sequenza la seconda facciata: Kilminster e Wilson incrociano i riff e le chitarre guardandosi in faccia, l’hippie Jonathan canta Money e Us And Them mentre Blake torna in passerella e si prende altri applausi per il suo assolo avvolgente. È il momento dell’idea grafica più suggestiva del concerto, quando le luci al laser ricreano il prisma, i colori e i temi della copertina del disco, mentre sugli schermi si moltiplicano i volti di altre vittime di guerra e di violenza.

In Brain Damage la voce di Waters, già affaticata, s’incrina ulteriormente; e il vecchio rocker sembra commuoversi per davvero quando si ferma a raccogliere l’applauso del pubblico lanciando baci e allargando le braccia. Quando la luna eclissa il sole e incombe la catastrofe definitiva di una toccante Two Suns In The Sunset, sopra di noi scandisce il suo inquietante ticchettìo l’Orologio dell’Apocalisse ideato nel 1947 dagli scienziati atomici dell’Università di Chicago e torna prepotente il messaggio dello show: questa non è un’esercitazione, il tempo stringe e c’è in ballo la nostra vita.

© Francesco Prandoni

Waters si accalora mentre implora la fine della folle corsa agli armamenti e alla minaccia nucleare, la reprise di The Bar abbassa i toni con Wilson alla Resonator e l’epilogo di Outside The Wall riaccende finalmente un barlume di speranza: dopo avere brindato con un bicchierino di Mezcal messicano, il gruppo diventa una marching band da strada che percorre in circolo il palco prima di accommiatarsi e continuare a suonare dietro le quinte. Forse, ancora una volta, la musica e la compassione umana ci salveranno.

Roger Waters ce lo dice al termine di 2 ore di spettacolo intenso e partecipato, ricordandoci che c’è stato un tempo in cui il rock and roll lanciava messaggi, faceva discutere e riflettere, divideva e impauriva, l’establishment come la maggioranza silenziosa. Che ce lo dica un 80enne non depone forse a favore dello stato di salute di una delle arti più significative e fortunate del 900, ma ci fa capire quanto fuoco e passione civile ardano ancora nel cuore di questo discusso, invecchiato, rancoroso, egocentrico, generoso, idealista e visionario artista mentre porta in giro per il mondo il suo «primo tour d’addio».

SETLIST

Comfortably Numb (Pink Floyd song) (2022 version); The Happiest Days Of Our Lives (Pink Floyd song); Another Brick In The Wall, Part 2 (Pink Floyd song); Another Brick In The Wall, Part 3 (Pink Floyd song); The Powers That Be; The Bravery Of Being Out Of Range; The Bar; Have A Cigar (Pink Floyd song); Wish You Were Here (Pink Floyd song); Shine On You Crazy Diamond (Parts VI-IX) (Pink Floyd song); Sheep (Pink Floyd song).

SET 2

In The Flesh (Pink Floyd song); Run Like Hell (Pink Floyd song); Déjà Vu; Déjà Vu (Reprise); Is This Tthe Life We Really Want?; Money (Pink Floyd song); Us And Them (Pink Floyd song); Any Colour You Like (Pink Floyd song); Brain Damage (Pink Floyd song); Eclipse (Pink Floyd song); Two Suns In The Sunset (Pink Floyd song); The Bar (Reprise); Outside The Wall (Pink Floyd song).