Dove possono portare un talento smisurato, la chimica, la sintonìa, la fratellanza, la fame di gloria, il duro lavoro, l’ambizione, la sfrontatezza e la determinazione? Lontano, lontanissimo, dove nessuno era mai arrivato. È il succo della storia raccontata nelle 2 ore abbondanti del documentario Becoming Led Zeppelin, nelle sale cinematografiche italiane fino a domani, 5 marzo.
Una storia che si focalizza, come il titolo anticipa, sulla fase iniziale di carriera del quartetto inglese che a cavallo fra gli anni 60 e gli anni 70 diventò più famoso dei Beatles e dei Rolling Stones conquistando il pubblico a forza di concerti, in virtù di alcuni dischi rivoluzionari e grazie al passaparola tra i fans nonostante l’iniziale indifferenza con cui venne accolto in patria e l’atteggiamento decisamente ostile della stampa internazionale. La favola di 4 ragazzi capaci – quando necessario – di fare quadrato anche contro il resto del mondo sotto l’ala protettiva di un manager minaccioso, astuto, totalmente dedito alla causa e qui colpevolmente trascurato: quel Peter Grant che, ammette Jimmy Page ridacchiando mentre commenta la foto che lo ritrae insieme a lui e al presidente dell’Atlantic Records, Ahmet Ertegun, alla firma del primo contratto discografico, «sembrava un mafioso». Tutti per 1 e 1 per tutti, come i moschettieri di Alexandre Dumas: a colpire, man mano che il racconto si dipana, è il loro cameratismo e il loro senso di solidarietà, pronti a fare fronte comune come soldati raggruppati in trincea.
Led Zeppelin, April 1969
© 2024 Paradise Pictures
Diretto da Bernard MacMahon che firma anche la sceneggiatura assieme ad Allison McGourty, il documentario ha avuto una vita travagliata (la prima proiezione pubblica, mentre la lavorazione non era ancora terminata, avvenne alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2021) e ha dovuto superare prima di tutto le reticenze dei 3 componenti sopravvissuti del gruppo: Jimmy Page (un control freak che su tutto ciò che riguarda i Led Zeppelin vuole avere l’ultima parola), Robert Plant (che al contrario sembra il più delle volte disinteressato all’argomento) e l’elusivo John Paul Jones. Tutti sospettosi e guardinghi quando si tocca l’argomento; e buon per MacMahon che avesse in mano una buona carta da giocare: il film American Epic, ricerca approfondita sulle origini della musica popolare americana negli anni 20 del secolo scorso, molto apprezzato tanto dal chitarrista che dal cantante.
Gli ex Zeppelin temevano, probabilmente, la deriva scandalistica di libri come il celebre Martello degli dei di Stephen Davis o la recente Biografia definitiva di Bob Spitz. Che si andasse a parare sulle solite storie di groupies minorenni, hotel distrutti, eccessi e frequentazioni pericolose. In merito, sono stati chiari: niente sex & drugs (a parte un accenno en passant di Plant quando questi parla, con intatto stupore, del suo 1° impatto con l’America) ma solo rock and roll, solo musica, come messo nero su bianco in uno storyboard che inizia con un lungo prequel e termina con il concerto del 9 gennaio 1970 alla Royal Albert Hall di Londra: il trionfante ritorno a casa davanti ad amici e familiari nel giorno del 26° compleanno di Page.
La trama segue un filo narrativo piuttosto canonico e l’ascesa vertiginosa del Dirigibile è raccontata nel contesto del suo tempo, intervallando interviste ai musicisti, foto e filmati del gruppo con reperti d’archivio che raccontano quegli anni: la presidenza Nixon, l’escalation in Vietnam, la guerra civile in Nigeria, i moti di piazza in giro per il mondo, lo sbarco del 1° uomo sulla Luna (mentre i Led Zeppelin, ricorda Plant, «suonano in una tenda da qualche parte in America» e ricevono il loro 1° disco d’oro). I 3 superstiti vengono intervistati nello stesso luogo, un austero e lussuoso salotto arredato con quadri, mobili in legno e sedie intarsiate, ma separatamente (forse perché quell’antico cameratismo si è diluito nel tempo e ognuno ha poi seguito una sua strada). Ognuno racconta se stesso anche prima della fatidica prova avvenuta in uno scantinato di Soho un giorno d’agosto del 1968: Page, giovane chitarrista prodigio, che presto diventa un richiestissimo session man lavorando giorno e notte negli studi di registrazione in cui spesso e volentieri incrocia Jones, ex direttore del coro della chiesa, organista e arrangiatore che scrive spartiti nottetempo e nonostante gli ammonimenti del padre musicista di vaudeville («Suona il sassofono, troverai sempre lavoro!») ha scelto come suo strumento principale il basso elettrico. Delle loro innumerevoli session da turnisti, il film ricorda quelle a fianco di Shirley Bassey (per il bondiano Goldfinger) e di Donovan.
Avviato a una carriera di dottore commercialista, Plant è invece osteggiato dai suoi e dalla moglie di John Bonham che lo considera uno squattrinato buono a nulla: arrivano entrambi dalla provincia, dalle Midlands industriali, e rispetto ai 2 navigati londinesi sono rozzi e ingenui. Ad accomunarli ai futuri compagni è la passione per il blues, per il soul, per lo skiffle e per il primo rock and roll; per quei pionieri di cui Becoming Led Zeppelin riesuma vecchi filmati in bianco e nero; il Johnny Burnette Trio che suona The Train Kept A Rollin’ (il 1° pezzo eseguito dai 4 durante il 1° incontro a Londra); Sonny Boy Williamson e Lonnie Donegan; Little Richard e James Brown; Johnny Kidd & The Pirates e la sua Shakin’ All Over.
È Page a condurre la narrazione, com’è giusto che sia: era lui il bandleader; il giovane uomo illuminato da una visione; il performer che lasciava le platee a bocca aperta suonando la chitarra con l’archetto del violino; lo stregone della sala d’incisione che sapeva come riprodurre i suoni che aveva in testa. Jones ne era il formidabile assistente capace di trovare subito un feeling quasi soprannaturale con Bonham, una forza della natura che nel suo stile unico e travolgente assorbiva anche gli insegnamenti di jazzisti come Gene Krupa. Plant il frontman hippie, sexy e riccioluto dotato di una voce che squassava microfoni e amplificatori e che con Page si divideva l’attenzione del pubblico femminile (ascoltate come, durante un programma radiofonico in cui è ospite negli Usa, le ragazzine che telefonano in redazione lo corteggiano riempiendolo di complimenti). Insieme producevano un rumore assordante, una potenza di fuoco annichilente. E il filmato dei bimbi che durante un’esibizione in una sorta di palestra si coprono le orecchie con le mani mentre una mamma basita tiene in braccio il suo neonato, strappano un sorriso spontaneo.
I fans hardcore del quartetto lo avranno già visto, come tanto altro materiale storico raccolto in Becoming Led Zeppelin. Del resto, quelli erano tempi in cui nessuno poteva rubare immagini con uno smartphone e le cineprese erano troppo visibili e ingombranti per sfuggire allo sguardo implacabile di Grant e dei suoi scagnozzi. Vedere gli Zeppelin sul grande schermo mentre suonano How Many More Times e Communication Breakdown, Dazed And Confused e What Is And What Should Never Be, è comunque un’esperienza da non perdere come lo è ascoltare Page nel momento in cui racconta con minuzia di particolari e l’entusiasmo di un ragazzino la nascita di Whole Lotta Love. Ognuno dei 3 porta in dote ricordi, foto mai viste prima e manufatti preziosi. Page mostra 1 diario d’epoca e Plant 1 quaderno con la prima bozza del testo di Ramble On: il 1° avvolge il suo racconto in un’atmosfera mistica ed epica ricordando il futuro predettogli da una chiromante e paragonando il suo strumento ad Excalibur, il 2° si conferma storyteller acuto e divertente, mentre rammenta la sua infatuazione per la Summer of Love mostrandosi ancora incredulo per quanto gli è accaduto. Un ironico, concreto e compassato Jones, assume finalmente un ruolo da coprotagonista dopo una vita vissuta spesso in seconda linea.
Prendere o lasciare, nel montaggio serrato che ai “tu per tu ” con i 3 protagonisti alterna travolgenti sequenze dal vivo, filmati di repertorio, biglietti di concerti, prime pagine di quotidiani e articoli di riviste musicali, sono soltanto loro a parlare filtrando ciò che viene detto e quanto viene sottaciuto. Non ci sono altre voci in scena: non quelle di amici, mogli, familiari, discografici, groupies, roadies, fans o colleghi (e la figlia di Grant se ne è già pubblicamente lamentata). Questa è la loro storia, raccontata dal loro punto di vista senza pettegolezzi e particolari piccanti. Non tutto funziona, va detto, nel sincrono fra audio e immagini; e lasciano molto a desiderare i sottotitoli italiani (l’intelligenza artificiale combinata a un’evidente ignoranza del gergo musicale produce in più occasioni effetti risibili). Ma non possono lasciare indifferenti neanche i più scafati cultori della band certe immagini mai viste: il pellegrinaggio di Page a Pangbourne davanti alla casa sul Tamigi in cui viveva all’epoca e dove il gruppo si ritrovò a provare; il raro filmato di una performance al Fillmore West di San Francisco; i pochi fotogrammi in movimento catturati nel 1969 al Festival di Bath (sconosciuti persino al chitarrista, che si allunga sulla sedia sgranando gli occhi).
E sono impagabili le espressioni dei 3 quando ascoltano per la prima volta la voce di Bonham recuperata da una rara intervista radiofonica concessa nel 1972 a una radio di Sydney, in Australia: è lì che Jimmy, Robert e John Paul tornano ragazzi e si accendono mentre gli occhi si inumidiscono e le labbra si aprono in un sorriso. In quei momenti si capisce una volta di più come i Led Zeppelin siano stati un corpo unico e indissolubile, di come a differenza di tanti altri gruppi rock abbiano vissuto in una centrifuga e spesso al limite, ma senza mai rischiare l’autocombustione a causa di egocentrismi fuori controllo. Come siano nati da una formula alchemica e irripetibile, una forza misteriosa di cui neanche loro conoscono le origini e il segreto.