Qualcuno, nei primi anni 90, coniò il termine trip hop per descrivere la musica ipnotica, nebbiosa, fuligginosa e sferragliante che arrivava da Bristol: la città di Tricky, dei Portishead e dei Massive Attack. Qualche anno dopo qualcun altro appiccicò la stessa etichetta alle canzoni morbide, torpide, sognanti dei Morcheeba: un modo diverso, il loro, di mescolare hip-hop, musica elettronica e suggestioni soul jazz; una variante smooth di un genere musicale allora sulla bocca di tutti e di tendenza.

Stavano a Londra, anche se arrivavano dalla cittadina costiera di Folkestone dove sbarcano i traghetti in arrivo da Calais, ed erano in 3: il “bluesman reincarnato Ross Godfrey componeva le musiche dividendosi fra chitarre e tastiere; il dj Paul, suo fratello maggiore, scriveva i testi, suonava la batteria e si prendeva cura dell’armamentario elettronico, sample, beat e programmazioni, ma anche di manipolare i suoi vinili con lo scratching; mentre Skye Edwards – pelle nera, cresciuta a Londra da una famiglia d’origine giamaicana – era la cantante dotata di una voce così carezzevole e accogliente da farti dimenticare tutti i mali del mondo. Avevano diverse passioni in comune:  fra queste, le colonne sonore e la cannabis.

Morcheeba

In Big Calm, il 2° e il migliore dei loro dischi uscito sull’onda di una collaborazione con David Byrne che li aveva voluti nel suo album Feelings, lo si coglie perfettamente. Profuma di serate a luci basse, rilassanti e un po’ sballate, trascorse a occhi socchiusi con in mano 1 bicchiere di vino e 1 joint (forse anche con diversi bicchieri di vino e più di 1 joint ), magari in un salottino vintage tutto dipinto di rosso come quello raffigurato sulla copertina del disco, fra sedie e poltroncine imbottite, un tavolino circolare e trasparente con un paio di cocktail, una pianta esotica, un Buddha dorato e un armadietto con giradischi incorporato. Praticamente il ricalco della busta di 1 vecchio disco di Ray Conniff, Hi Fi Companion, pubblicato nel 1966 dalla CBS (con la differenza che lì sedia e poltrona erano blu). Una perfetta immagine da antico Lp di genere exotica ma anche da moderno album chill out, di cui i Morcheeba di Big Calm erano pionieri. Maestri del downtempo: anche se, come ricorderà anni dopo Paul alla rivista Music Radar, «a quei tempi eravamo sempre fuori di testa a causa di questa o quella sostanza. E il fatto che facessimo una musica così pacifica, è in qualche modo piuttosto bizzarro».

Anche molte delle canzoni di Big Calm erano nate così, il giorno di Natale del 1995. «Mi sedetti con una mezza pillola di speed e una bottiglia di vodka e scrissi l’album praticamente in una notte!», ha raccontato Ross al magazine Quietus: prima ancora che uscisse l’album di debutto, Who Can You Trust?, giusto per non farsi trovare impreparati e con l’acqua alla gola semmai la casa discografica avesse bussato alla porta esigendone un seguito in tempi rapidi mentre la band si faceva il mazzo in tour. Da quelle session informali e alcoliche tenute in 1 piccolo studio adiacente al monolocale londinese dove i 2 fratelli coabitavano, uscì anche la bozza del pezzo che avrebbe aperto il disco, il più famoso: The Sea. Un mare in bonaccia, liscio come l’olio se non per qualche increspatura di chitarra wah wah e per il soffio leggero di una sezione d’archi arrangiata dal 1° violino Steve Bentley-Klein incontrato da Ross durante un party in cui era stato ingaggiato come disc jockey. Un seducente mix di ambient e di placido r&b al rallentatore, con le sue scansioni elettroniche precise ma misurate, un feeling estatico e una melodia carezzevole cantata magistralmente da Skye. L’arma letale del trio, grazie a quella voce flessuosa, naturale, sensuale e mai forzata: l’esatto contrario dei gorgheggi acrobatici e starnazzanti di tante interpreti da talent show e pop star da classifica.

Sarà il 2° singolo estratto dall’album, dopo la scelta più sorprendente di Shoulder Holster, dove il breakbeat si fa più insistente mentre le tablas e l’arrangiamento evocano il raga rock di George Harrison (le charts rimarranno abbastanza indifferenti, ma le radio risponderanno in maniera positiva). Big Calm, in realtà, si rivelerà un ricco contenitore di singoli, dato che in quel formato usciranno altri pezzi che pur non diventando delle hits rimarranno nelle orecchie di una generazione. Dapprima Blindfold, dondolante come un’altalena e soffice come un batuffolo di cotone (magari inzuppato con un poco di alcol ), scritta per 1 film di Nick Cassavetes ma non registrata in tempo per essere inclusa nella colonna sonora; e in cui gli archi furono campionati in modo da garantire un perfetto incastro con il groove hip-hop del pezzo. Poi Let Me See, con un riff più incisivo, sentori di funk jazz e di psichedelìa, il bel tocco di Dom Pipkin al Fender Rhodes e al Wurlitzer e il flauto del veterano Jimmy Hastings, vecchio eroe della scena di Canterbury anni 70 con i Caravan e con i Soft Machine. Infine Part Of The Process, altra melodia contagiosa cantata da Skye su un gorgogliante sfondo fra lo swamp blues e il country elettronico, in una strana terra di confine in cui il programming e l’EMS Synthi incontravano la pedal steel e la lap steel suonate “live ” da Ross.

Bullet Proof, invece, era 1 break strumentale inserito a metà programma: 1 intermezzo di “beats and scatchs ” in cui Paul pescava negli archivi di certa classica musica da sonorizzazioni e sottofondi, ma anche da 1 pezzo dei Jungle Brothers; e Friction, un fake reggae ispirato da Bob Marley e dalle rivolte che in quei giorni incendiavano Brixton, con la tromba e il trombone del duo dub Zion Train e il toasting di Spikey T, che era stato in tour con Jah Wobble e aveva militato nella crew britannica Sidecut. Un altro featuring vocale, quello di Jason Furlow del duo rap newyorkese New Kingdom, marchiava la più sperimentale e improvvisata title track, con i nastri processati e riprodotti al contrario da 1 Roland e DJ Swam, collaboratore di Beck, a darci dentro con lo scratching; mentre in Diggin’ A Watery Grave, Ross faceva praticamente tutto da solo imbracciando 1 sitar e 1 slide e ispirandosi a quanto Ry Cooder e Jack Nitzsche avevano fatto nella colonna sonora di Performance, diretto da Donald Cammell e Nicholas Roeg, interpretato da Mick Jagger. Ma poi, in 1 disco fondato sui beat e sui groove, spuntavano anche 2 eleganti ballad pop e orchestrali che davano a Skye quanto da lei richiesto ascoltando per la prima volta i grezzi provini fissati su nastro dai compagni di bandMusica più dolce, please!»): le volute a spirale di Over And Over (senza batteria e percussioni) e la struggente Fear And Love con 1 chitarra acustica, 1 corno francese e 1 assolo di cornetta di Bentley-Klein.

In piena epoca Brit Pop e in antitesi alla sua sfacciata insolenza e ai volumi delle sue chitarre rock, i Morcheeba assestarono inaspettatamente con Big Calm un colpo da Top 20 in Inghilterra e da 2.000.000 di copie nel mondo. Un trionfo ma anche un po’ una condanna, dato che qualcuno percepì i loro dischi come un genere voluttuario da consumarsi fra un dinner party e un after hours; e qualche giornalista bollò le loro canzoni come coffee table music, easy listening da ascoltare in un bar mentre si sorseggia un cappuccino. Loro scrollavano le spalle, sicuri di avere trovato, grazie anche all’apporto cruciale del coproduttore Pete Norris (il loro “chirurgo dei suoni ”), quel che cercavano: «Le canzoni giuste, con la giusta voce e il giusto arrangiamento». Avevano ragione. 2 anni dopo Fragments Of Freedom (il disco di Rome Wasn’t Built In A Day), più pop, più uptempo e più accattivante, avrebbe ottenuto risultati commerciali anche migliori. Ma mai più avrebbero catturato quel fulmine nella bottiglia.

Morcheeba, Big Calm (1998, Indochina)