È una giornata particolare. È morta un’icona (come altro definirla?) del rock e alla fine di I Can’t Explain, 1° pezzo in scaletta del concerto degli Who al Parco della Musica di Segrate, sullo schermo a fondo palco appare l’immagine di Ozzy Osbourne: “ciao Ozzy ” c’è scritto sotto la foto, mentre Roger Daltrey rivolge al cantante storico dei Black Sabbath un «God bless you» e la platea, democratica in termini di sesso e di fasce d’età a dispetto dei prezzi tutt’altro che popolari, ne intona il nome.

Ozzy se n’è andato a 76 anni a poche settimane dall’ultima apparizione sul palco, Roger (81 anni) e Pete Townshend (80) sono una specie di suoi fratelli maggiori che ancora stanno in scena ribadendo di voler morire prima di diventare vecchi, nell’immancabile My Generation proposta in una versione estesa e miscelata con il rock blues quasi rappato della molto (ma molto) meno nota Cry If You Want. È un pezzo da It’s Hard e dallo stesso, controverso e bistrattato album del 1982 proviene la più nota Eminence Front, trascinante techno rock che Townshend (da sempre molto affezionato al brano) canta con buon piglio: sono i pezzi meno antichi, in una scaletta a prova di bomba costruita come un greatest hitsFacciamo le canzoni più famose», annuncia Pete), un juke box da festicciola mod o una playlist da radio classic rock.

Pete e Roger sono vecchi e stanchi? Sì, certo. Prendono qualche stecca e sbagliano qualche attacco? Anche. E a rimetterci è soprattutto un capolavoro come Behind Blue Eyes. Ma intanto sono lì, orgogliosamente sul campo, ed è impossibile resistere alla loro resilienza (parola inflazionatissima, ma stavolta ci sta), alla loro cocciutaggine, alla loro anima candidamente rock and roll a dispetto del business, dei litigi e di tutto il resto; ai gesti che hanno fatto la storia e che ora usano con parsimonia (il windmill di Pete con il braccio a mulinello; i mic swinging di Roger, quando usa il filo del microfono come se fosse un lazo). Intanto, dall’impatto sonoro di Substitute, di Who Are You e più avanti di You Better You Bet appaiono chiare alcune cose: che i pezzi più corali funzionano a meraviglia, grazie anche e soprattutto alle 3 voci aggiunte; che la band (costituita per lo più da americani provenienti dal gruppo di Daltrey solista) è molto solida e conosce bene il repertorio; che il batterista Scott Devours è un degno sostituto del misteriosamente e bruscamente licenziato Zak Starkey; che l’energico e risoluto fratello minore di Townshend, Simon (di 15 anni più giovane di lui), con la sua voce e le sue chitarre è la spina dorsale, la dinamo e il mediano di spinta di un settetto completato dall’elegante Jon Button al basso, da Loren Gold alle tastiere e da John Hogg ai cori e alle percussioni.

I 2 vecchi leader entrano in scena come te li aspetti: occhiali scuri e capelli bianchi. Roger assomiglia molto più al compianto Tony Bennett che all’angelo biondo con giacca a frange di Woodstock 69; e Pete, con il suo zuccotto in testa, lo zio saggio di famiglia dal sorrisetto ironico e il passato scapestrato. Imbraccia subito una Stratocaster rossa che resterà il suo strumento prediletto nel corso del set, ne ricava sonorità fluide e robuste a seconda dei casi e dal repertorio di Woodstock riprende con la band anche i 2 pezzi più famosi di Tommy: Pinball Wizard con i flipper che scintillano sui megaschermi; e See Me, Feel Me, che nella prima parte mette a dura prova l’ugola di Daltrey.

Come sempre le immagini accompagnano un racconto storico, biografico e nostalgico: la Londra antica e moderna di Soho e dei grandi palazzi della City; Pete e Roger giovani, insieme a Keith Moon e a John Entwistle; le acque tempestose della Manica che accompagnano le note di una Love, Reign O’er Me in cui Daltrey ce la mette tutta strappando applausi sinceri e che chiude una sequenza di 5 canzoni in fila dedicate a Quadrophenia: Roger all’armonica e Pete protagonista assoluto di I’m The One e la bella sorpresa di I’ve Had Enough, che secondo il sito setlist.fm gli Who non eseguivano dal vivo dal 2013. Il doppio album del 1973 è il disco più saccheggiato, ovviamente, assieme a Who’s Next; e in questo caso le selezioni sono ben 6, compreso 1 altro brano un po’ dimenticato (lo sottolinea Townshend) come Love Ain’t For Keeping, mentre a ricordarci che è lui il re dei riff e dei power chords provvede anche l’antico singolo The Seeker con i suoi rimandi «a “Bobby Dylan”, ai Beatles e a Timothy Leary» in 1 testo scritto nel 1970 – ricorda il chitarrista in 1 dei pochissimi dialoghi della band con il pubblico – davanti a una palude della Florida in una giornata torrida e infestata di zanzare come quella di Segrate, quando ancora di cambiamento climatico nessuno parlava.

È un po’ struggente ma anche molto confortante vedere quei vecchi guerrieri ancora sul palco, forse per il farewell tour definitivo. Pete maestro di cerimonie, Roger che dopo aver imbracciato una Telecaster, in un paio d’occasioni sostituisce degnamente il violino di Dave Arbus in Baba O’Riley con la sua armonica blues; e che nel finale di Won’t Get Fooled Again caccia l’atteso urlo liberatorio con una potenza e una rabbia che non ci saremmo aspettati, scatenando l’entusiasmo della platea. È l’attesa chiusura terapeutica, quell’invito a gola spiegata a non farsi più buggerare anche se il tuo nuovo capo è identico al vecchio. Ma poi c’è un bonus inatteso, rispetto alla scaletta di 2 giorni prima a Piazzola sul Brenta: ed è proprio The Song Is Over, il pezzo che intitola il tour, che il gruppo (conferma Pete) aveva mandato a puttane qualche mese fa quando si era esibito alla Royal Albert Hall per il Teenage Cancer Trust 2025 proponendola dal vivo per la prima volta; che aveva provocato le ire di Daltrey nei confronti di Starkey e che stavolta procede con meno intoppi, anche se Roger ogni tanto scuote la testa e di nuovo sembra avere problemi d’intonazione e con il ritorno del suono nelle cuffie.

Sul bel fraseggio di pianoforte di 1 dei brani più lirici e malinconici degli Who, rivolge il suo canto agli spazi sconfinati, al mare infinito e alle vette delle montagne che toccano il cielo, ricordandoci che la musica degli Who ha sempre avuto aspirazioni “adulte ”, mistiche e spirituali che andavano al di là del sex, drugs and rock and roll cui il gruppo certamente non si è sottratto. «La canzone è finita», ci avvertono lui e Townshend recuperando da Who’s Next una rara perla ingiustamente trascurata fino ad oggi e che stavolta sembra davvero assumere i contorni di un bel regalo d’addio. Fino all’ennesima prova contraria.

SETLIST

I Can’t Explain; Substitute; Who Are You; Love Ain’t For Keeping; Bargain; The Seeker; Pinball Wizard; Behind Blue Eyes; The Real Me; 5:15; I’m One; I’ve Had Enough; Love, Reign O’er Me; Eminence Front; My Generation/Cry If You Want; See Me, Feel Me/Listening To You; You Better You Bet; Baba O’Riley; Won’t Get Fooled Again; The Song Is Over.