Southern Avenue è un corso lungo quasi 3 chilometri che attraversa il centro di Memphis collegando la “Soulville” di McLemore Avenue, sede storica della Stax Records, alla zona est della città. È anche il nome di una giovane band locale che proprio per la Stax ha pubblicato i suoi primi 2 album e che per il nuovo disco è approdata invece alla Alligator di Bruce Iglauer, storico marchio blues di casa a Chicago.

Scelte logiche, dato che soul e blues elettrico sono le colonne portanti di 1 gruppo in cui Ori Naftaly, chitarrista di pelle bianca e di origini israeliane, è il custode designato delle 12 battute, mentre le sorelle afroamericane Jackson – sua moglie Tierinii (voce solista), “TKalias Tikyra (batteria e cori) e l’ultima arrivata Ava (violinista diplomata, corista e percussionista) – sono un trio tutto pepe di pura estrazione gospel nato e cresciuto in chiesa, anche se oggi il loro atteggiamento e il loro look sono molto liberi e informali fra capelli tinti di biondo, extension, abiti sgargianti, top e minigonne.

Ori Naftaly, Ava Jackson, Tierinii Jackson, Tikyra Jackson

Insieme costituiscono una vera e propria famiglia, e lo ribadiscono orgogliosamente nel titolo di 1 album che, come spiegano nell’interno di copertina, “per noi rappresenta più di un disco: è una dichiarazione che certifica la nostra crescita e il nostro essere uniti ”. Il loro, precisano i Southern Avenue a scanso d’equivoci, è un sound nato nel cuore di Memphis ” e che “riflette i crocevia culturali di questa città, un arazzo d’armonie e di ritmi che potrebbero solo arrivare da un melting pot di esperienze come le nostre ”.

Se per prepararsi al disco precedente, come Ori ha raccontato alla rivista italiana Il Blues, la band aveva rimesso sul piatto dischi di Curtis Mayfield e Isaac Hayes, stavolta la dieta musicale ha comportato robuste razioni di Memphis Minnie, B.B. King, Skip James, Koko Taylor e un po’ di Hill Country Blues (in particolare di R.L Burnside): ascolti prevalentemente blues, dunque, ma che non spostano più di tanto in quella direzione il baricentro di 1 stile composito in cui tutti i generi black sono affluenti che scorrono verso un’unica foce; una musica vibrante, spontanea e impetuosa che celebra e omaggia la classicità, dato che il quartetto e il produttore John Burk hanno voluto registrare le nuove canzoni con il fonico Boo Mitchell, attuale titolare dei leggendari Royal Studios in cui suo padre Willie, negli anni 70, forgiò il suono inconfondibile della Hi Records e dei dischi di Al Green, Ann Peebles, Syl Johnson e O.V. Wright.

La ricetta prevede una sezione ritmica coesa e votata al groove (TK è una batterista energica e scoppiettante, mentre al basso elettrico si alternano il da poco scomparso Black Rhea e il vecchio amico Luther Dickinson dei North Mississippi Allstars), assoli e fraseggi secchi, limpidi e incisivi di Naftaly alla chitarra elettrica («La suono come se mi trovassi in un gruppo con Aretha Franklin, non alla maniera di Stevie Ray Vaughan») e il rinforzo alle tastiere di Jeremy Powell, un altro musicista locale che del gruppo ha fatto stabilmente parte in passato: elementi che, come scrive Alex Greene sul Memphis Flyer, “stendono un manto stradale rugoso e sterrato su cui le armonie vocali delle sorelle scorrono come una Cadillac ”. Il loro è un blend vocale aromatizzato come un whiskey del Tennessee; armonioso e pastoso, con quella sintonìa che solo 3 consanguinee sono in grado di produrre, mentre su quella base l’esplosiva voce solista di Tierinii si muove con agilità felina.

Non serve altro per imbastire quello che secondo Burk corrisponde a una sorta di «concept album che racconta la loro storia, ma anche la nostra»: una storia che è un viaggio catartico dalle tenebre alla luce, dal peccato alla redenzione, dal caos alla salvezza; e che parla d’emancipazione e di empowerment, timori atavici e voglia di spiccare il volo, amicizia e vincoli familiari, dispensando (una volta tanto) messaggi positivi di speranza e incoraggiamento: pane al pane e vino al vino, senza giri di parole e con un linguaggio semplice, immediato, sintetico, coinvolgente.

In Family c’è l’effervescenza rock blues a tinte gospel di Long Is The Road e l’esuberanza incontenibile di Upside; ci sono le le sensuali carezze soul di So Much Love e c’è il clima afoso di Late Night Get Down; c’è il violino country di Found A Friend In You e una bottleneck che come un turibolo sparge aromi sudisti in tutto il disco; c’è la locomotiva smooth funk di Gotta Keep The Love e quella bluesy di Back To What It Feels Right; e c’è una Rum Boogie che cita Beale Street e il Bar DKDC. C’è l’inno alla libertà di Flying e, in We Are, una risoluzione finale a ritmo di second line (“Quando affermiamo noi stessi ”, canta Tierinii nell’ultima strofa del disco, “possiamo riscrivere il futuro ”). C’è, per dirla sinteticamente alla maniera dei Southern Avenue, tanta “Memphis music ”: la musica di quella città in cui, come amava dire Isaac Hayes, il gospel delle chiese confluisce con il blues del Delta, la country music di Nashville con il jazz e l’r&b provenienti da Atlanta e da New Orleans.

I Southern Avenue non sono diventati i nuovi Alabama Shakes come avrebbero voluto a un certo punto i discografici della Stax; e non sono neanche i nuovi Staple Singers come forzando un po’ la mano sostiene qualche ammiratore (anche se le assonanze ci sono, e a Mavis una canzone come Upside calzerebbe a pennello). Però veleggiano con il vento in poppa e hanno tante buone carte da giocare: il dna giusto, la freschezza, l’entusiasmo, la verve giovanile e la spontaneità esuberante con cui aggiornano 1 linguaggio classico evitando di farlo sembrare risaputo. In 10 anni di carriera (e con qualche aggiustamento nella formazione) sono indiscutibilmente cresciuti e maturati, senza mai mettersi troppa fretta: il tempo, come cantavano una volta Irma Thomas e i Rolling Stones, sembra essere decisamente dalla loro parte.