Non tutti i produttori musicali sono stati glamour come Quincy Jones (1933-2024), o controversi come Phil Spector (1939-2021). Personaggi a tutto tondo perfetti per interpretare (il primo) il ruolo del cavaliere senza macchia e senza paura; e (il secondo) quello del villain designato quando si racconta la storia della musica popolare dalla metà del 900 in poi. Alla loro morte giornali e social media si sono riempiti di ricordi ed epitaffi, mentre la stessa cosa non è accaduta – quanto meno non nelle stesse proporzioni, e soprattutto in Italia – quando mercoledì scorso, 13 novembre 2024, a Los Angeles è venuto a mancare a 87 anni SheldonShelTalmy.

Shel, chi? si saranno chiesti in tanti, compresi quelli che hanno mandato a memoria il riff proto metal di You Really Got Me dei Kinks e il balbettìo di Roger Daltrey in My Generation degli Who. 2 canzoni che hanno definito un’epoca e un suono: il suono energico, fragoroso e travolgente della Giovane Inghilterra che a metà anni 60 decise di alzare la voce e di prendersi una fetta consistente del mercato discografico mondiale. A forgiare quel sound fu proprio lui, mr. Shel Talmy, che da qualche tempo si era trasferito a Londra in cerca di gloria e di fortuna. Piccolo di statura, sgobbone, determinato, ipovedente fin da piccolo, faccia da furetto, capelli corti da bravo ragazzo, nell’aspetto e nel comportamento da regular guy non aveva nulla che potesse spaventare gli alti papaveri della discografia inglese dell’epoca. Tutto il contrario, insomma, di un tipo eccentrico e imprevedibile come Guy Stevens, che nei 60 produsse Procol Harum, Mott The Hoople e alla fine del decennio successivo tornò in scena convocato dai Clash per London Calling.

Se quello era un outsider, Talmy era un integrato. Furbo, sveltissimo di mente e con un fiuto da cane da tartufi quando si trattava di scovare un potenziale successo. Nato e cresciuto a Chicago, era stato un enfant prodige e un personaggio televisivo, quando a 13 anni era diventato un campione del gioco a premi Quiz Kids alla tv americana. Poi, a 18 anni, si era diplomato al liceo di Fairfax, in California, dove studiarono anche il trombettista e discografico Herb Alpert (cofondatore dell’etichetta A&M), Michael Jackson e il suo quasi coetaneo Spector, da lui dipinto come un truffatore e un tipo inquietante da cui fin da ragazzo decise di stare alla larga. Ai Conway Studios di Los Angeles visse poco dopo le prime esperienze in studio di registrazione, lavorando per programmi televisivi e su produzioni discografiche; e acquisendo in brevissimo tempo le competenze che ne fecero un fonico di primo livello, capace e inventivo.

Recatosi in Inghilterra nel 1962 per trascorrervi una vacanza, decise invece di restarvi ottenendo un ingaggio alla Decca nel ruolo, allora praticamente inesistente, di produttore indipendente (fino ad allora nelle case discografiche circolavano seriosi tecnici del suono in camice bianco). Centrò subito il colpo con i Bachelors, un trio di armonicisti e cantanti irlandesi che con il singolo Charmaine scalò le classifiche; e sfruttò quanto aveva appreso in California per riscrivere le regole della produzione pop: riempiendo lo studio di tappeti, di schermi e di pannelli isolanti, erigendo cabine insonorizzate, alzando il volume delle chitarre, spingendo gli amplificatori oltre il livello di clipping per aumentarne la distorsione, posizionando intorno alla batteria non 2 o 3 ma 12 microfoni per coglierne ogni sfumatura e amplificarne l’impatto. Da quel momento, nulla per lui e per il rock fu più lo stesso.

Un po’ per fortuna, un po’ per intuito e per perfetta scelta di tempo, si era trovato nel posto giusto al momento giusto: agli albori della Swinging London fra ragazze in minigonna, fotografi e stilisti à la page, attori, registi e musicisti ambiziosi e creativi che volevano darci un taglio col passato. Con la Londra in bianco e nero e ingessata nel rigore post bellico, popolata da disciplinati gentlemen che andavano al lavoro muniti d’ombrello, bombetta e quotidiano sotto il braccio. Si apriva allora una nuova era in technicolor, nutrita da droghe creative (da cui Talmy non si fece mai sedurre), ambizioni smisurate e voglia sfrenata di divertirsi. Anche lui si mise a frequentare i locali e i ritrovi giusti, insinuandosi in quella cerchia ristretta di eletti – la nuova aristocrazia londinese – che non dormiva mai e stava cambiando lo stile di vita di una nazione. Non era un figlio dei fiori, né un radicale e tantomeno un promotore della controcultura. Era un americano a Londra, pragmatico e geniale, che voleva sfruttare la sua grande occasione e ci riuscì.

Shel Talmy
(1937-2024)

© Talmy Entreprises/PA

Diventò un guru della British Invasion e quando, nell’estate del 1964, il manager dei Kinks lo invitò in studio per produrre il loro 3° singolo, You Really Got Me, innescò una bomba che aspettava solo di esplodere (alla session era presente come chitarrista ritmico Jimmy Page, ma come Talmy spiegò innumerevoli volte e con gradi di sopportazione decrescenti fu Dave Davies, fratello minore del leader del gruppo, Ray, a eseguirne il breve e bruciante assolo usando un amplificatore che Shel aveva provveduto a sforacchiare per renderne il suono più sporco). Con il gruppo di Muswell Hill realizzò grandi album e meravigliosi singoli come All Day And All Of The Night, Tired Of Waiting For You, Sunny Afternoon e Waterloo Sunset; nel frattempo fu contattato da un giovane Pete Townshend che – folgorato da You Really Got Me – compose I Can’t Explain con l’esplicito intento di farsi produrre da lui. Talmy guidò gli Who in studio durante le sedute di registrazione del loro album di debutto My Generation e dell’epocale (che altro termine usare?) title track, spingendosi a tal punto nella ricerca della distorsione del suono che quando alla Decca americana venne recapitato il successivo 45 giri Anyway, Anyhow, Anywhere questa rispedì il master al mittente convinta che ci fosse stato un errore in fase di registrazione, di missaggio o di stampa.

Con il quartetto londinese l’idillio durò poco, causa insanabili contrasti caratteriali e d’opinione fra lui e il manager Kit Lambert, nei cui confronti ha sempre avuto parole durissime («Uno dei peggiori rifiuti umani che abbia avuto il dispiacere di incontrare in vita mia», mi disse in occasione di un’intervista che realizzai nel 2023 per il mensile Classic Rock Italia). Rimase un suo grande cruccio, insieme al mancato successo mainstream dei Creation: band in cui credeva moltissimo, che aveva nel chitarrista Eddie Phillips un pioniere dello strumento capace d’ispirare gente come Page (che da lui prese l’idea di usare l’archetto di un violino per suonare la chitarra) e che oggi è considerata un imprescindibile capostipite del genere garage/freakbeat. Prima, durante e dopo quegli incidenti di percorso ebbe comunque tante altre occasioni per mostrare il suo acume, il suo intuito e la sua versatilità. Nel 1965 aveva prodotto alcuni demo per il 18enne David Bowie: prima come componente dei Manish Boys, poi come solista (con il suo vero nome, DavidDavyJones).

In seguito modellò il raffinato e inventivo folk baroque a tinte jazz blues dei Pentangle; quello anarchico e visionario di Roy Harper; quello in chiave pop di Chad & Jeremy e quello di marca dylaniana di Ralph McTell. Lavorò con gli Small Faces e con Lee Hazlewood, ribadendo il suo talento da hit maker con gli australiani Easybeats (Friday On My Mind, 1966), i londinesi Manfred Mann (artefici lo stesso anno di una fortunata rilettura di Just Like A Woman di Bob Dylan e di Semi-Detached, Suburban Mr. James) e i gallesi Amen Corner ((If Paradise Is) Half As Nice, 1969, cover in lingua inglese de Il Paradiso scritta da Mogol e Lucio Battisti e portata al successo in Italia da Patty Pravo). Sempre sintonizzato con lo spirito e gli umori del tempo, si fece trovare pronto anche quando sull’Inghilterra si mise a soffiare impetuoso il vento del punk, producendo nel 1977 per i Damned il singolo a tiratura limitata Stretcher Case Baby. Nel 1979, distratto da altri interessi, decise di tornare negli Stati UnitiProbabilmente avrei dovuto farlo 5 anni prima»), curando negli anni successivi pubblicazioni antologiche delle sue incisioni storiche ma sempre prestando un orecchio all’attualità: in anni recenti collaborava con gli Strangers In A Strange Land, band guidata dal giornalista e storico musicale Alec Palao e fautrice di una musica fra popbarocco” e psichedelìa di forti reminiscenze Sixties.

Il produttore discografico americano con il chitarrista Pete Townshend e il batterista Keith Moon

Fu quello, indiscutibilmente, il suo decennio d’oro, anche se ha continuato a lavorare fino all’ultimo dichiarandosi pienamente soddisfatto della vita vissuta in un messaggio postumo affidato ai suoi canali social, frequentati assiduamente da musicisti e appassionati che non vedevano l’ora di leggere i suoi dettagliatissimi aneddoti sulla realizzazione di storiche incisioni che lo avevano visto nel ruolo di protagonista, raccontati con lo stile franco, diretto e a volte pungente per cui era noto. Piccole lezioni di storia del pop raccontate da un attore di primo piano; e chissà che un giorno qualcuno non decida di raccogliere in un libro quelle sue preziosissime pillole prima che si disperdano nel web.

Intanto seguiamo il consiglio di Shel, scegliendo You Really Got Me, My Generation, Friday On My Mind o qualche altra sua hit da ascoltare a tutto volume mentre leggiamo il suo ultimo post, in cui ci invita a raggiungerlo il più tardi possibile (“Io non vado da nessuna parte”) e si augura di poter incontrare di nuovo tanti amici e conoscenti, lassù dove si vocifera ci sia un grande studio di registrazione sempre in funzione e in cui è possibile produrre in santa pace musica celestiale.