Dati i precedenti, non sorprende più di tanto che la prima pubblicazione a sé stante su supporti audio, 2 Lp o 2 Cd, di Pink Floyd At Pompeii – MCMLXXII (Legacy Recordings/Sony Music: così reintitolato per ricordare la data di distribuzione originale del film di Adrian Maben, 1972) abbia esordito al 1° posto nel Regno Unito, in Germania e in Belgio, ma soprattutto nella classifica di vendita italiana Top of The Music mettendosi alle spalle i nuovi album di Sfera Ebbasta con Shiva, Elodie, Achille Lauro e Olly (intanto, l’edizione del cinquantennale dell’eterno The Dark Side Of The Moon è risalita al N°83). Strana compagnia davvero per Roger Waters, David Gilmour, Nick Mason e il mai troppo compianto Richard Wright, che lì in mezzo fanno la figura di alieni atterrati su un pianeta abitato da esseri morfologicamente diversi da loro. Eppure è successo: 1 disco registrato oltre 50 anni fa; e per lo più dal vivo, tiene a bada i campioni dello streaming e dei social media, i nuovi idoli del pop e del rap nazionale sostenuti dal pubblico teenager che orienta il mercato.

È l’ennesima conferma della popolarità a prova di bomba di cui i Pink Floyd godono in Italia ancora più che in altri Paesi (in Francia e in Germania, ci raccontava tempo fa un discografico, il loro catalogo vende di media il 20% in meno che da noi); una popolarità che sul suolo nazionale supera, e non di poco, quella di altre superstar quali Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, Queen o David Bowie. C’entrano, ovviamente, l’hype e l’interesse suscitati dalla recente distribuzione nelle sale cinematografiche della versione rimasterizzata in 4K e Dolby Atmos della pellicola diretta da Maben, il cui successo superiore alle aspettative ha indotto i distributori a estendere la programmazione oltre la settimana inizialmente prevista (a proposito: anche al cinema si sono visti tanti giovani, gli stessi che in giro sfoggiano le magliette con il prisma di The Dark Side Of The Moon e acquistano i vinili dei Floyd nei pochi negozi di dischi rimasti).

Tutti, veterani e neofiti, sono rimasti ancora una volta suggestionati e travolti dalla potenza evocativa della musica e delle immagini dello storico concertoanti Woodstock ” che alle folle oceaniche dei raduni dell’epoca contrapponeva programmaticamente l’atmosfera spettrale di un antichissimo, abbandonato e polveroso anfiteatro romano privo di pubblico (a parte la troupe cinematografica, i roadies del gruppo e lo sparuto gruppo dei famosi “ragazzi degli scavi ”). Inconsapevoli dell’importanza storica che quell’evento avrebbe assunto negli anni e nei decenni a venire, i 4 Floyd, come ha acutamente osservato qualcuno cogliendo perfettamente il feeling e l’atmosfera della loro performance, allestirono allora una sorta di “requiem per i defunti ” (le vittime dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C) davanti a una platea di fantasmi.

Non è mai stato né ha mai voluto essere, Live At Pompeii, una rappresentazione fedele e senza filtri di ciò che il gruppo suonò fra le rovine riesumate in epoca borbonica durante quei 4 giorni di riprese (dal 4 al 7 ottobre 1971): solo le allora inedite One Of These Days ed Echoes (spezzata in 2 parti, collocate all’inizio e alla fine del film per esigenze di sceneggiatura) e la più  antica A Saucerful Of Secrets furono effettivamente eseguite a Pompei, mentre Set The Controls For The Heart Of The Sun, Careful With That Axe, Eugene e la bizzarra Mademoiselle Nobs – versione alternativa e tutto sommato fuori contesto di Seamus, con i latrati di un levriero russo accompagnati da una chitarra elettrica suonata da Waters e dall’armonica blues di Gilmour – furono registrate 2 mesi dopo, nel dicembre 1971, negli studi Europasonor di Parigi. E se ancora vi meravigliate per la magnifica perfezione degli impasti vocali di David e Richard nella parte cantata di Echoes, o della presenza contemporanea nel brano dell’organo e del pianoforte a coda di quest’ultimo, sappiate che lo si deve alle sovraincisioni effettuate in sala di registrazione (come spesso e volentieri accadeva e accade negli album live: a nessuno fa piacere tramandare ai posteri stecche, imperfezioni e suoni lo-fi).

Tutto questo non intacca la magia, soprattutto oggi che Steven Wilsonleader dei Porcupine Tree, faro del prog rock contemporaneo e mago dei remix a cui hanno già affidato i loro cataloghi storici gruppi come King Crimson, Roxy Music, Jethro Tull e XTC – ha fatto tutto ciò che da lui ci si aspettava migliorando sensibilmente la qualità sonora, il dettaglio e la definizione di nastri analogici che dopo essere stati riprodotti su innumerevoli bootleg anche recenti, nel 2016 avevano avuto la loro prima pubblicazione ufficiale su Cd nell’ambito del box set The Early Years 1965-1972. La tracklist era allora diversa e più ridotta, mentre il doppio vinile e il doppio compact disc appena usciti contengono entrambi un’alternate take di Careful With That Axe, Eugene e una versione unedited e più lunga di A Saucerful Of Secrets. Al mensile inglese Mojo, Wilson ha spiegato recentemente di aver avuto poco spazio di manovra, dato che al di là delle suddette sovraincisioni, di qualche effetto sonoro e di qualche intervento di sound design realizzato a Parigi, quel che si sente nel master sono essenzialmente «4 tracce mono per batteria, basso, chitarra e tastiere, più le parti vocali». Il musicista inglese si è dunque premurato di ripulire i nastri, di sistemare i livelli e di correggere qualche distorsione presente nella fonte sonora originale, riequilibrando lo spettro sonoro e la “spazialità ” della musica.

Il miglioramento è sensibile e rende un ottimo servizio a 1 ora abbondante di musica che fotografa i Pink Floyd in un cruciale momento di transizione. Orfani da 3 anni e ½ di Syd Barrett, della sua eccentrica e deliziosa follìa e dei suoi colorati, aciduli confetti psichedelici, appena prima di sparigliare le carte con The Dark Side Of The Moon i 4 fluttuavano allora in 1 spazio dai contorni indefiniti, impostando coraggiosamente la rotta verso il centro del Sole. Tentati dalle avanguardie, dalla sperimentazione e dalla contaminazione con le arti visive (il cinema di Michelangelo Antonioni, poco dopo Pompei il balletto di Roland Petit), facevano musica distante dal formato e dal concetto di canzone pop, progettando ed eseguendo audaci architetture sonore disegnate al tecnigrafo.

Meno pomposa e più asciutta di Atom Heart Mother, Echoes era 1 trip di oltre 20 minuti di durata in cui si fondevano psichedelìa, suoni esoterici (l’effetto “sonar ” del pianoforte di Wright ottenuto con un altoparlante Leslie, il verso del gabbiano riprodotto da Gilmour invertendo l’ingresso e l’uscita al pedale wah wah della sua Fender Stratocaster), una melodia a 2 voci struggente e malinconica, una sezione funk blues dal ritmo e dai dialoghi strumentali serrati (qui il remix di Wilson risulta particolarmente esplosivo) e 1 testo enigmatico nel quale Waters, come spiegò lui stesso in un’intervista a Rolling Stone, rifletteva sul tema dell’empatìa e della connessione umana contrapposte alla solitudine e all’alienazione della società moderna. Il pezzo migliore dei Pink Floyd post Barrett e pre The Dark Side Of The Moon (per qualcuno, dell’intera carriera) e di cui l’esibizione a Pompei rappresenta probabilmente la versione definitiva.

Le immagini sedimentate nel tempo e rinfrescate dalla nuova edizione del film non ti abbandonano neanche quando cerchi di concentrarti sul suono, ma l’ascolto della “colonna sonora ” è comunque avvincente di per sé. La slide “ventosa ” di Gilmour, le raffiche dell’Hammond di Wright, le rullate di Mason e il tambureggiante basso con delay di Waters, risultano in One Of These Days ancora più turbinosi che nella versione di studio pubblicata solo qualche settimana dopo su Meddle; la melodia orientaleggiante e allucinata di Set The Controls For The Heart Of The Sun è più ipnotica e inquietante che mai; la tensione crescente di Careful With That Axe, Eugene e i sussurri di Waters suonano ancora più arcani e sinistri prima di quel raccapricciante urlo da film horror che ancora fa accapponare la pelle, mentre l’avventarsi furibondo di Roger sul gong esplode con vulcanica potenza durante il pandemonio sincopato dei primi 3 movimenti di A Saucerful Of Secrets che flirtano con la musique concrète di John Cage e di Karlheinz Stockhausen: una tempesta scandita dal drumming circolare di Mason, prima che subentri la calma irreale del dopo battaglia, con l’organo ecclesiastico di Wright e la Celestial Voice di Gilmour a celebrare il ricordo delle vittime di guerra.

«Semplicità, atmosfera e trame musicali», sono secondo Wilson i segreti di quella musica eterna, in cui si incarna l’essenza di un certo suono Pink Floyd (diversissimo da quello degli anni a venire). Ma c’è dell’altro: in questa occasione, in questo ambiente e in questo contesto particolare si colgono anche il senso della Storia e di una tragedia immanente, la maestosità degli spazi e delle architetture. Soprattutto, si percepisce il silenzio. Da Claude Debussy a Miles Davis, tanti grandi musicisti ci hanno insegnato che la musica è anche spazio vuoto fra le note. Pink Floyd At Pompeii – MCMLXXII ne è un esempio perfetto: forse anche per questo è ancora così misteriosamente affascinante e trasversalmente irresistibile.