4 anni fa, pubblicando una raccolta di canzoni rivolte a una figlia immaginaria (Songs For Our Daughter), Laura Marling aveva tradotto in musica una premonizione. Nel febbraio del 2023, infatti, è nata Maudie: la cui presenza, fisica e spirituale, aleggia dal 1° all’ultimo dei 36 minuti di Patterns In Repeat, il nuovo album della cantautrice inglese realizzato in gran parte nel salotto di casa sua, a Londra, in compagnia della piccola creatura («Per la prima volta, in vita mia, mi sono ritrovata a guardare negli occhi un altro essere umano mentre scrivevo»). I vagiti della bimba, il ticchettìo dei tasti di un pc, il tintinnìo prodotto dal collare di un cane e altri rumori “incidentali ” sono stati catturati dai microfoni e Marling ha insistito che rimanessero nel disco assieme a qualche altra piccola imperfezione, così da conservare quel senso di autenticità, di confortevole intimità, di calore domestico che voleva trasmettere. Di una quiete subito screziata dalle prime apprensioni, perché in fondo la vita continua a non essere una passeggiata (anzi «a fare schifo»).

La notte scorsa mentre dormivi hai cominciato a piangere/in quei momenti non posso proteggerti anche se continuo a provarci/capiterà che andrai in posti in cui io non potrò esserci/ma ho parlato agli angeli e ci penseranno loro a vegliare su di te ”, canta Marling con disarmante candore in Child Of Mine, la delicatissima ninna nanna che apre il disco e in cui si sente anche la voce di Buck Meek dei Big Thief, scritta «mentre facevo dondolare mia figlia nella sua culla quando aveva 4 settimane di vita». In quel momento ha capito di non avere perso la capacità di comporre canzoni, anche se con uno stato d’animo e in una prospettiva diverse dal solito, consapevole di provare oggi gran parte delle sensazioni che i suoi genitori provarono mentre la crescevano. È una delle sottotrame dell’album, un motivo ricorrente nei testi di brani che riflettono sul ripetersi ciclico di certi modelli di comportamento nell’ambito dei complessi intrecci relazionali che caratterizzano ogni famiglia e ogni sfera affettiva (un master in psicanalisi e il ricorso alla terapìa delle costellazioni familiari, sono servite ad approfondire la conoscenza del fenomeno).

Laura Marling
© Tamsin Topolski

Non si era mai mostrata così sincera, diretta e vulnerabile, Laura; e i motivi li ha spiegati lei stessa durante un’intervista concessa alla rivista di moda e cultura AnOther: «Credo che avere un figlio», ha raccontato alla giornalista Dominique Sisley, «incrini qualcosa nella tua anima fredda e glaciale». Per mostrarsi spontanea, naturale e senza filtri, ha scelto un approccio ancora più sobrio e rigoroso di quello che aveva adottato nei dischi immediatamente precedenti: una vocalità sommessa e a volte sussurrata (il disco è cantato benissimo); un fingerpicking di chitarra acustica in modalità sovente più vicina alla classica che al folk o al pop; nessuna batteria e una cornice sonora sempre piuttosto sottile (cosicché l’ascolto non è facile e richiede una certa concentrazione).

Qualche tocco di mellotron o di pianoforte, qualche (rara) nota di basso o contrabbasso, qualche (altrettanto raro) strumento a fiato, mentre in Child Of Mine e in Your Girl le fa da controcanto un coro maestoso e celestiale e in quasi tutto il disco si ascoltano le sezioni d’archi arrangiate con gusto raffinato ed eccellente senso drammaturgico da Rob Moose (violista, violinista, orchestratore e collaboratore di Bon Iver, Decemberists, National ma anche di artisti mainstream quali Paul Simon, St. Vincent e Taylor Swift). Laura voleva ricreare qualcosa di simile a ciò che Leonard Bernstein aveva composto per West Side Story, da lei ascoltato a ripetizione nei mesi post gravidanza, ma il mood non sembra distante neppure da quello di certe colonne sonore del cinema indipendente britannico (quelle, per esempio, di un altro attento osservatore del quotidiano come Mike Leigh, regista di Segreti e bugie e di La felicità porta fortuna – Happy Go Lucky).

L’esperienza travolgente della maternità, che Marling ha paragonato in numerose interviste a un trip psichedelico in piena regola, si è stabilizzata in un relativamente tranquillo tran tran quotidiano prima che l’artista decidesse di fissare su nastro questi quadretti acustici, non tutti necessariamente autobiografici: fra gli arpeggi delicati di Caroline, la cantautrice fantastica sull’impatto destabilizzante della ricomparsa di una vecchia fiamma nella vita di un uomo sposato, innamorato della moglie e con prole già adulta (“Caroline, sei come la brace/una roccia che improvvisamente ha ripreso vita ”); nel tono colloquiale di Your Girl, ribalta la prospettiva del rapporto genitore-figlio identificandosi nei sentimenti di 4 sorelle alle prese con la morte di 1 dei migliori amici di suo padre. Il quale, baronetto ed ex musicista/titolare di uno studio di registrazione a cui si deve buona parte della sua educazione musicale, è autore del pezzo più struggente del disco, Looking Back, composto in gioventù immaginandosi nei panni di un anziano costretto su una sedia a rotelle e intento a ripercorrere malinconicamente le tappe della sua esistenza passata, con un fisico che non risponde più alle sollecitazioni ma un cuore “in cui l’amore pulsa ancora ”.

È un brano inedito “rubato ” a sua insaputa e perfettamente in linea con i contenuti dell’album; un altro tassello di quell’affresco sul ciclo naturale e ineluttabile della vita e dei suoi fitti intrecci, delle sue gioie e dei suoi dolori (“Sapevo, ovviamente lo sapevo/che un giorno lei mi avrebbe fatta a pezzi ”, canta Laura nell’ombrosa Shadows), che si ripropongono anche nei titoli delle canzoni: Patterns e Patterns In Repeat – scritta con il compagno George Jephson, e in cui il coproduttore Dom Monks suona con discrezione qualche strumento a percussione – sono 2 serene meditazioni “gemelle ” collocate strategicamente quasi agli antipodi nella sequenza di un album suddiviso in 2 da 1 interludio strumentale (anch’esso molto cinematografico) in cui Marling maneggia mellotron e archi sintetici. Scandita da note sparse di pianoforte, No One’s Gonna Love You Like I Can è una velata dedica a Maudie (“se la vita è solo un sogno/farò in modo che valga qualcosa ”), la cui voce introduce una tenera e molto più esplicita Lullaby (“dormi angelo mio/con me sei al sicuro ”) ripresa in coda in un’ariosa e commovente versione strumentale.

È suggestivo, per chi ancora considera (suo malgrado) Laura Marling una folk singer come ai tempi dei suoi esordi londinesi accanto a gruppi come Mumford & Sons e Noah and the Whale, che alcune session abbiano avuto luogo al Bert Jansch Studio nel Somerset (oltre che allo Smilo Sound di New York), anche se il chitarrista da lei citato esplicitamente come fonte di ispirazione per Young Girl è invece un maestro della fusion come Larry Carlton, per un certo tempo a fianco di Joni Mitchell. Stavolta l’ombra della canadese è forse meno evidente che in passato; e la stessa Marling ha dichiarato di recente di sentirsi oggi più vicina ad artisti come Leonard Cohen e Townes Van Zandt che a lei e a Bob Dylan, primi modelli di riferimento.

Non è detto che lo si colga al primo ascolto, perché Patterns In Repeat è un disco meno lineare di quanto sembri, da leggere in filigrana come le carte dei tarocchi che ne hanno ispirato la copertina e le cui qualità divinatorie Marling paragona a quelle dello scrivere canzoni (nella newsletter che pubblica sulla piattaforma Substack con lo stesso titolo del disco). Anche quelle, sostiene, le servono oggi per «comprendere certi schemi di comportamento provenienti da qualche inaccessibile profondità che è l’essenza del nostro essere». Ma Patterns In Repeat non assomiglia a una fredda seduta psicanalitica: contiene musica pura, sincera e senza compromessi che, ascoltata con pazienza e attenzione, rivela ogni volta qualcosa di più intimo, gratificante e sorprendente.