C’era una volta la Rykodisc (in realtà esiste ancora, anche se da tempo è stata assorbita nel gruppo Warner Music e ha perso buona parte della sua vecchia identità). Un’etichetta indipendente nata nel 1984 e che non lasciava nulla al caso: né in termini di politiche artistiche, tantomeno nelle scelte di packaging e di marketing. Cosicché, quando sulla scrivania di redazione o negli scaffali di un negozio scorgevi 1 di quegli inconfondibili jewel box trasparenti color verde chiaro – marchio di fabbrica oculatamente registrato dalla società – sapevi di dovergli prestare attenzione, e non solo per la qualità audio allo stato dell’arte di cui la label statunitense (prima in assoluto a dedicarsi esclusivamente alla pubblicazione di compact disc e al nascente suono digitale) si faceva un vanto.

Sapevi che raramente sbagliava un colpo, non solo quando ristampava i cataloghi di Frank Zappa, di David Bowie, di Elvis Costello, di Robert Wyatt o della Hannibal di Joe Boyd, ma anche quando sul mercato proponeva novità discografiche. Come fece nel 1992 con AKA Grafitti Man (scritto proprio così, con un errore ortografico nel titolo): disco che, in sintonia con la parola giapponese (“Ryko ”) scelta dalla casa americana come denominazione, aveva “il suono di un lampo di luce ”. Un fulmine a ciel sereno arrivato da chissà dove. Chi era quel nativo americano, John Trudell, che recitava le sue lunghe e incalzanti poesie su un robusto intreccio strumentale a metà fra l’asciutto sound chitarristico del New York di Lou Reed e certe sonorità etno rock nei dischi di Robbie Robertson (ma prima ancora che il musicista canadese sondasse a fondo le sue radici “indiane ” con Music For The Native Americans)?

John Trudell
(1946-2015)

Era un uomo maturo di 46 anni con una storia densissima, turbolenta, avventurosa e tragica alle spalle. Un individuo inquieto e tormentato ma anche coraggioso, ottimista (a dispetto di tutto) e speranzoso nel futuro a cui non piaceva farsi appiccicare addosso delle etichette. Quando lo descrivevano come un poeta, un agitatore politico o un emblema della lotta per il riconoscimento dei diritti dei nativi americani, rispondeva che quelle erano soltanto alcune delle cose che faceva e che nessuna di esse lo definiva per intero (lo avremmo scoperto in quei mesi anche come attore: accanto a Val Kilmer, Fred Ward, Sam Shepard e il Graham Greene di Balla coi lupi in Thunderheart di Michael Apted, thriller/neo western politico coprodotto da Robert De Niro e “dalla parte degli indiani ”). Prima di quello c’era stata un’infanzia difficile vissuta quasi in miseria dentro e fuori la riserva indiana Sante Sioux, nelle vicinanze della città in cui era nato (Omaha, in Nebraska) — da padre Santee e madre originaria di una tribù messicana (deceduta quando lui aveva appena 6 anni).

C’erano stati, fra il 1963 e il 1967, 5 anni di servizio nella Marina Militare Americana durante la Guerra in Vietnam, seguiti da 3 anni di «lavori saltuari, studi scolastici e disillusioni». Poi il ruolo di portavoce degli Indiani di Tutte le Tribù durante l’occupazione dell’Isola di Alcatraz, al largo di San Francisco, fra il 1969 e il 1971 e in seguito (fra il 1973 e il 1979) la presidenza nazionale dell’American Indian Movement. L’FBI, intanto, non smetteva di tenere gli occhi addosso a quella testa calda con il carisma del leader : specie dopo il clamoroso rogo di una bandiera a stelle e strisce inscenato per protesta davanti alla sede dell’agenzia governativa a Washington. Il terribile incendio che poco dopo gli distrusse la casa nella riserva Shoshone Palute in Nevada, uccidendogli moglie, 3 figli e la suocera, venne liquidato dagli investigatori dello stesso Federal Bureau come un “incidente casuale ”. La poesia diventò la sua ancora di salvezza, l’unico strumento per elaborare quel lutto tremendo senza mai dimenticare cosa fosse successo. «Le strofe», spiegò, «diventarono le mie bombe, le mie esplosioni, le mie lacrime, il mio tutto».

Trudell con Val Kilmer nel film Thunderheart

2 incontri cruciali lo spinsero poi verso il mondo della musica e il rock che aveva sempre amato. Il 1°, nel 1979, con Jackson Browne, cantautore da sempre sensibile alle cause sociopolitiche e solidale con le sue battaglie, grazie al quale iniziò a frequentare gli studi di registrazione. Il 2°, il 1° maggio 1985, con Jesse Ed Davis, grande e mai abbastanza celebrato chitarrista elettrico nativo della tribù Kiowa in Oklahoma, guitar hero di culto grazie soprattutto alle sue collaborazioni con Taj Mahal, con John Lennon, con George Harrison (anche in occasione del celeberrimo concerto per il Bangladesh del 1971), con Gene Clark, con lo stesso Browne e con Bob Dylan (è sua la chitarra che si ascolta sul singolo del 1971 Watching The River Flow; e proprio al Bob Dylan Centre di Tulsa, in questo periodo, è in corso una mostra a lui dedicata). «Posso mettere in musica le tue parole», gli disse Davis, e da lì prese forma la prima versione di AKA Grafitti Man, pubblicata nel 1986 solo su musicassetta dalla piccola etichetta dello stesso Trudell, Peace Company, e venduta via mail order o ai concerti della band che i 2 avevano nel frattempo allestito.

Fu Dylan – ancora lui – a segnalarlo al mondo intero indicandolo come suo disco preferito dell’anno; Trudell lo ringraziò pubblicamente (per avere «acceso una luce» su di lui) assieme a Jackson Browne e a un altro popolarissimo sostenitore della prima ora come Kris Kristofferson, quando nel 1992 Rykodisc pubblicò su Cd, con lo stesso titolo, una sorta di compendio che riassumeva le sue gesta musicali fino a quel momento riprendendo anche pezzi dai successivi Heart Jump Bouquet, Fables And Other Realities e …But This Isn’t El Salvador (gli ultimi 2 registrati dopo la morte prematura di Davis con il chitarrista ritmico della Graffiti Band, Mark Shark), sapientemente arricchiti da sovraincisioni vocali e strumentali con la partecipazione degli stessi Browne e Kristofferson, dell’altro cantautore nativo Quiltman e di turnisti di prim’ordine.

Fortunatamente la pungente e fluida solista di Davis (accreditato anche come coproduttore insieme al bassista Rick Eckstein) restava in primo piano intrattenendo un fitto dialogo con la 6 corde di Shark, con la sezione ritmica e con i timbri caldi dell’organo, cosicché dai bit del Cd (e dai solchi delle successive ristampe su vinile) usciva un sound corposo, ritmato, coinvolgente ma non edulcorato. Non un semplice sfondo alle parole come succede in tanti dischi di spoken word, ma un solido sostrato rock blues in cui il recitato di John si alternava e si incrociava con i cori e con le melodie intonate dagli ospiti.

Aperta e chiusa da canti nativi, Rockin’ The Res metteva subito in tavola la ricetta: una rock and roll song in cui la voce ferma e vibrante del poeta Sioux invitava a tenere alti i cuori e a contrapporre amore e solidarietà a un sistema corrotto, squilibrato e autoritario che non ti lasciava via di scampo tenendoti inesorabilmente ai margini della società. Trudell parlava di ciò che vedeva con i suoi occhi, ascoltava nei notiziari e leggeva sui giornali riflettendo su questioni private e pubbliche, su affari interni e internazionali. Sui rapporti interpersonali e sulle relazioni amorose che possono diventare delle gabbie, fonti d’incomprensione, inquietudine e dolore (Never Never Blues con un’armonica, una slide e il grande Bill Payne dei Little Feat al pianoforte; il blues tribale di Beauty In A Fade; i cori, i ritmi serpentini e l’ipnotico riff di tastiera di Restless Situations), invitando al tempo stesso a non gettare la spugna e a non sopire i palpiti del cuore (What He’d Done, una struggente ballata fra soul e Americana che ha il respiro melodico ampio e profondo di certe cose di Robertson con e senza The Band).

Ma anche su un mondo governato allora come oggi dai padroni della guerra e della finanza: in Rich Man’s War tracciava una mappa delle aree calde del pianeta in cui a rischiare la pelle e a rimetterci era come sempre la povera gente: in Centro America come in Palestina o ad Harlem; a Three Mile Island (la centrale nucleare statunitense in cui nel 1979 si era sfiorata la catastrofe) come a El Salvador; nella riserva di Pine Ridge dove ebbe luogo il massacro di Wounded Knee come a Belfast, mentre nella Guerra del Golfo la “principessa George ” (Bush sr.) dava prova di machismo scatenando l’inferno con le sue Bombs Over Baghdad, titolo della canzone più dura ed elettrica di 1 disco che non si tirava mai indietro, dipingendo una realtà livida e spietata in cui tutto era in vendita e nessun uomo valeva più di quanto spendesse, mentre fratelli e sorelle native s’imbruttivano drogandosi e prostituendosi per strada (sono alcune delle immagini di Grafitti Man, scandita da un riff lento, tagliente, implacabile).

La tensione si attenuava e il tono si addolciva in Baby Boom Ché, un nostalgico lento anni 50 con chitarre twang in cui Trudell parlava di Elvis Presley e degli altri eroi originari del rock and roll celebrandoli come portatori di un’autentica rivoluzione di costume in un’America ingessata, perbenista e ancora traumatizzata dalla Guerra; e nella conclusiva Tina’s Smile dove, al ritmo di un moderno synth blues, ricordava con affetto e nostaglia la seconda moglie, anche lei poetessa e attivista, aprendo la porta a un raggio di luce ed esorcizzando il suo terribile passato.

Indipendente e libero, cuore ardente e selvaggio deciso a non inchinarsi a regole inique e alla narrazione imposta dal potere (nel fiammeggiante r&b di Wildfires, dove affiora anche 1 sassofono; e in una Somebody’s Kid dalla strofa molto loureediana, offriva forse i migliori ritratti di se stesso) in AKA Grafitti Man Trudell cantava non solo la rabbia di una cultura sottomessa ma anche la sua ritrovata fiducia nel Grande Spirito, il potere taumaturgico della Terra e della Natura e il divino che sta dentro, sopra e intorno a noi. Lo ha fatto fino alla fine dei suoi giorni, dei suoi 69 anni vissuti con integrità e con la schiena dritta in un mondo che fin da piccolo lo aveva messo davanti a ostacoli e a prove che per altri sarebbero state forse insormontabili. Per il suo amico Jesse Ed il rock and roll era stato un viatico alla gloria e all’autodistruzione, per John è stato soprattutto un potente strumento di comunicazione e una fonte di salvezza.

John Trudell, AKA Grafitti Man (1992, Rykodisc)