Una vita dopo il rivoluzionario debutto con i Roxy Music (1972), Bryan Ferry ha perso la voce e l’ha giustificato così, convinto come non mai, al mensile inglese Uncut : «Ho sempre desiderato realizzare un album strumentale. Ogni volta che ho inciso dischi, in particolare dal 1980 in poi, gran parte della loro vita si è svolta in veste strumentale. La parte vocale, in pratica, veniva realizzata all’ultimo minuto. Magari abbozzata prima, ma era l’aggiunta finale al pezzo. A volte mi è capitato di ragionare che fosse un delitto mettere le parole su tutto ciò, finendo per rovinarlo…».

Sorprendente, audace, del tutto inaspettato, Loose Talk è il suo 1° album di musica inedita da Avonmore del 2014. Electro-noir, come l’immagine in copertina: una cornetta del telefono che sembra uscita dalle pagine di un romanzo hardboiled scritto da Raymond Chandler. Un disco che ruota attorno a registrazioni su cassette, demotape e abbozzi di canzoni:

«Non sono mai stato un tecnico e ho qualche sintetizzatore, pur non considerandomi un programmatore», ha tenuto a precisare. «Sono semmai un musicista e le cassette che ho “collezionato” sono come quei vecchi album da disegno pieni d’idee che non hanno trovato una collocazione, ma che a volte contengono qualcosa d’interessante».

11 canzoni ricostruite e rimodellate a favore delle spoken-words della poetessa pittrice Amelia Barratt, che Bryan ha avuto modo di conoscere dopo una sua performance in un locale dell’East End londinese, di ospitare nel suo studio per incidere un audiolibro e di sperimentare – assecondato da quelle microstorie di tutti i giorni – nella plumbea, martellante techno di Star: composizione infervorata dal funk e nata da un provino di Trent Reznor e Atticus Ross dei Nine Inch Nails, che chiudeva in bellezza la Bryan Ferry Retrospective in 5 Cd uscita nell’ultimo scorcio del 2024.

Bryan Ferry e Amelia Barratt
© Albert Sanchez

Sicchè il minimalismo dell’orlo di una gamba dei pantaloni, di una visita al luna park o del ritratto di un fioraio (“È magro/Non si nota/Come se nessuno si aspettasse di più o di meno da lui “) sono gli accadimenti delle tracce di Loose Talk che la Barratt ha colmato d’inquietudini e di surrealtà, come certi suoi quadri che dipinge ispirandosi certamente all’irlandese Francis Bacon e al cileno Sebastián Matta.

«Credo che in alcuni brani il pianoforte su cui ho scritto gran parte del mio repertorio faccia ormai parte del suono», ha dichiarato Ferry. «È un vecchio Steinway acquistato nel 1973. Vivevo a Redcliffe Square, a Chelsea, me lo procurò un clavicembalista e posso dire che abbia ancora un carattere fantastico, seppure leggermente scordato. Possiedo in tutto 3 pianoforti e ognuno di essi ha una sua distinta personalità. Come le vecchie Fender e Les Paul di certi chitarristi».

Che in Loose Talk il piano sia il più delle volte mattatore lo dimostra il pezzo d’apertura, Big Things: un metronomo dà il ritmo e i tasti fanno sgocciolare una melodia, lasciando che il ricordo di In Every Dream Home A Heartache (gioiello psico/esistenziale di For Your Pleasure, il 2° album dei Roxy Music) si materializzi in controluce. Fra le pieghe di Florist, invece, il pianoforte viene “somatizzato ” da Bryan Ferry in tutta la sua estatica solennità mettendosi sulle decadenti tracce di A Song For Europe (3° Lp roxyano : Stranded), mentre in Cowboy Hat dà respiro al flusso melodico per poi farsi conquistare dagli archi e in White Noise (a detta di Ferry il pezzo più “antico ” su cassetta, databile intorno al 1973) cogliere, accanto al basso e a null’altro, il sublime risultato “atmosferico ” dell’insieme.

Le altre composizioni, pur mantenendo la loro identità lo-fi che ben si sposa con le parole recitate da Amelia Barratt, esprimono arrangiamenti più densi, pastosi ed elaborati affidandosi a musicisti che hanno più volte collaborato con Bryan, fra cui il chitarrista Neil Hubbard, i bassisti Guy Pratt e Alan Spenner, i batteristi Paul Thompson (già Roxy Music) e Andy Newmark.

Se infatti Stand Near Me trae ossigeno da un basso funkeggiante, dai ricami delle percussioni e dalle rifrazioni di un oboe, Demolitionballad di assoluta eccellenza – viene progressivamente sgranata dalle tastiere che accennano un lento ritmo da habanera; Holiday sprigiona soul music nei suoi ritmi baciati e in quel dipanarsi che, con dolcezza, scuote i sensi; Pictures On The Wall, che potrebbe benissimo trarre ispirazione non solo dalla roxyana Mother Of Pearl (di nuovo Stranded), ma anche da Tara e da India, strumentali dell’epoca Avalon; la title track, Loose Talk, persuasivo rock blues che empatizza con Let’s Stick Together (1962, del chitarrista americano Wilbert Harrison), cover fra le più riuscite di Mr. Ferry.

Per finire, uno spazio quasi impercettibile viene riservato alla sua voce: che in Orchestra equivale a un sussurro, in sottofondo, capace di rendere ancora più ovattata questa sorta di More Than This al ralenti ; e che in Landscape, forse molto ma molto lontano, sottoforma di crooning spettrale, lambisce un’ambient music al principiar delle tenebre.

«Collaborare con Amelia mi ha fatto percepire che una parte di me, a lungo trascurata, stia davvero venendo alla luce. Come reagirà il pubblico? Vedremo». Per quanto mi riguarda, promosso magna cum laude.