Perdonino i fan più sfegatati di Bruce Springsteen, volendo pure di Tom Waits, di Tom Petty, di Patti Smith (quota rosa obbligatoria!), di Jackson Browne o di John Mellencamp – ma il più clamoroso rocker-cantautore americano di scuola 70s è sempre e solo 1, a nostro insindacabile giudizio: Warren Zevon. Il grande musicista di Chicago ma trapiantato a Los Angeles è semplicemente stato 1 degli artisti più incendiari prodotti nella scena americana tutta – 1 di quei songwriter-performer la cui bravura è roba rara, di quelli che non ne sono nati molti a quei livelli.

Warren Zevon (1947-2003)

Basti, per averne prova definitiva, come pesi massimi di varia estrazione gli abbiano dedicato attenzioni non secondarie da quando gli fu diagnosticato il tumore che, alla fine, se l’è portato via nel settembre 2003: Bob Dylan, saputo della malattia, nell’autunno 2002 fece diversi concerti con molti di pezzi di Zevon in scaletta, da Mutineer a Boom Boom Mancini, da Accidentally Like A Martyr fino a Lawyers, Guns And Money; David Letterman dedicò a Warren un’intera, leggendaria puntata del Late Show che tranquillamente è 1 dei momenti più toccanti di tutta la storia della tivù mondiale; suoi amici-colleghi (pezzi di Eagles, Ry Cooder, Tom Petty, il fraterno amico e attore col vizietto della musica Billy Bob Thornton, Emmylou Harris, Jorge Calderón, Bruce Springsteen, David Lindley, T Bone Burnett, Dwight Yoakam e Jackson Browne) non si sono fatti pregare 2 volte a riempire The Wind (2003), l’ultimo album di WZ; oppure il Boss, con tutta la E Street Band, appena morto l’amico, il concerto seguente lo aprì con una clamorosa e conilcuoreinmano My Ride’s HereBene, stasera vorrei iniziare con una canzone del mio grande amico Warren Zevon. Warren è mancato qualche giorno fa… sapete, Warren era uno dei grandi grandi grandi songwriter americani – e so che ci mancherà molto»). Tornando indietro di qualche ulteriore decennio, bello rammentare come Don Henley e Glenn Frey, stupendamente sbruffoni e probabilmente fatti di coca & tequila sunrise, ai Grammy 1978 dove trionfarono con Hotel California, affrontarono il palco chiedendo fra l’acqua cheta e il beffardo «Ma davvero non vi siete filati Warren Zevon? Vergognatevi…» – o qualcosa del genere.

Zevon con Jackson Browne e John Belushi

Lunga introduzione, vero, per solleticare la curiosità agli ignari e ai non-iniziati. Nella fattispecie, qui siamo a parlare del Warren Zevon performer – quello che, a partire dai secondi anni 70, per diverso tempo contese all’amico Bruce lo scettro di stage animal più elettrico del pianeta. Il tutto grazie alla ristampa di Stand In The Fire (1980), il 1° disco dal vivo di Zevon, uno dei live album più infuocati dell’intera storia del rock. Per la cronaca, una dozzina d’anni dopo l’acustico e in solitaria Learning To Flinch (1992) sarà suggello e complemento a quello di lustri prima – ascoltarli 1 di fila l’altro ha davvero il suoporcoperché. Fire, già ristampato nel 2007 con alcune bonus tracks, qui letteralmente raddoppia: dai 10 brani di cui era composto nel 1980, oggi passa a ben 20. Piatto succulento per tutti gli zevoniani che si rispettino, insomma. E, per i neofiti, perfetta introduzione al mondo di un chiaro genio della canzone.

La scena-del-crimine è quella dell’amato Raymond Chandler, la Los Angeles di Hollywood. Nella fattispecie il Roxy, 1 dei locali più leggendari del Sunset Strip. Lì nell’agosto 1980 il rocker si installò per una residency di 5 sere con backing band gli effimeri Boulder, per l’occasione guidati dal chitarrista David Landau, fido sideman di Warren nonché fratello del noto Jon, manager/produttore del Boss. Quello che ne uscì fu uno dei «dischi live più potenti, incredibili e indimenticabili che ho udito in vita mia», come ebbe a dire brother Letterman. Noi, umili fan e cronisti forniti d’opinione, ci limitiamo a dire, molto sentitamente: avremmo voluto esser lì!

Lui, Warren vintage 1980, è teso come una corda di Stradivari o affilato come la lama di un Bowie knife (William S. Burroughs e Ragazzi selvaggi docet), a scelta. Esplosivo concentrato di Rolling Stones e Hunter S. Thompson, di Bob Dylan e di Martin Scorsese (cui già nella stampa originale è dedicata l’intera opera), di John Belushi e di Igor Stravinsky, di Lou Reed e di Stephen King, di Kinky Friedman e del già citato Chandler – palla di fuoco lanciata nel palco che non fa prigionieri, fulmina i cuori e non ti lascia sazio, tipo che ne vuoi ancora e ancora e ancora. Il materiale ne è solo la riprova: da Lawyers, Guns And Money (“Sono tornato a casa con la cameriera, come faccio sempre” – puro way of life) a quella Jeannie Needs A Shooter scritta con Bruce Springsteen (o meglio, reinventata da un vecchio numero del Boss rimasto nei cassetti); dall’inno mannaro Werewolves Of London all’allora travolgente inedito The Sin; dall’animalhousesca I’ll Sleep When I’m Dead all’autocommiserazione senza rimpianti Poor Poor Pitiful Me; dalla dichiarazione d’intenti Excitable Boy alla ieratica e bellissima Mohammed’s Radio; fino al maiuscolo medley in onore a Bo Diddley che concludeva al gusto tritolo il disco del 1980, Bo Diddley’s A Gunslinger/Bo Diddley.

Nell’edizione expanded del 2007 con 4 brani in più avevano colpito gli organi più sensibili, tipo l’anima, le versioni solo voce e piano di Hasten Down The Wind e soprattutto di Frank And Jesse James – nonché la solenne Play It All Night Long, Vietnam song dedicata ai veterani della Sporca Guerra con tanto di citazione di Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd. Qui, 40 anni dopo, il cerchio si completa definitivamente con altri 6 bollenti diamanti – con speciale menzione per Roland The Headless Thompson Gunner, Gorilla You’re A Desperado e la cover di Allen Toussaint, A Certain Girl, perfetto infiamma-folla. È proprio il caso di dire: enjoy every sandwich – godetevi fin l’ultimo panozzo!