Fossimo nel 1966, nel 1972 o nel 1987 come per Blonde On Blonde, Exile On Main St. o Aguaplano, Ballate per uomini e bestie – il nuovo disco di Vinicio Capossela composto da 14 brani per quasi 80 minuti di musica – sarebbe il classico doppio album che serve a mettersi alla prova definitivamente – dopo che hai già fatto molto. Paradosso: tipo solo le recenti monumentali opere che messe insieme arrivano a quasi 4 ore e ½ di musica. Se questo non è già di per sé futurismo contemporaneo, cosa lo è? La città che sale – e niente che la fermi. Provando a fare il gioco a quali elementi associamo alcuni dei suoi dischi, in termini di “fonosimbolismo”, Canzoni a manovella (2002) sembra aria; Marinai, profeti e balene (2011) è chiaramente acqua; Canzoni della Cupa (2016) è terra ma anche polvere che riempie l’aria – e i polmoni. A cosa appaiamo, invece, Ballate per uomini e bestie? L’elemento si vede ma è anche inintelligibile, come se si tentasse un viaggio al centro della terra dove vi è tanto fuoco ma anche tanto pericoloso ignoto. O forse anche il mondo parallelo web, come certi numeri dell’opera sembrano suggerire. World wide web per uomini e bestie.
Vinicio Capossela, qui dentro, non ha mezze misure: è complesso e aspira tutto, vuole essere ascoltato e tira per i capelli perché ciò accada. San Francesco, Tiziana Cantone, Oscar Wilde, Johnny Cash, Pier Paolo Pasolini, Sant’Antonio, John Keats, Gesù Cristo – un turbine senza soluzione di continuità dove la parola, importante, scolpita ma anche rotolante, regna sovrana. E la musica che veste tutto coinvolge una pletora di musicisti che forse sfonda numericamente molti dei suoi album precedenti, peraltro già saturi di collaboratori. Nomi collaudati: il chitarrista americano Marc Ribot è il talismano angolare acchiappato oramai 25 anni or sono; l’altro addetto alle corde Alessandro Stefana (Guano Padano, PJ Harvey) è oramai l’ombra di Vinicio; il direttore Stefano Nanni l’uomo dell’ordine orchestrale. Ma anche molte sorprese, fra i tanti altri coinvolti: il sassofonista Daniele Sepe, addirittura Massimo Zamboni (CCCP, CSI), Gigi Cavalli Cocchi (Luciano Ligabue, ClanDestino, CSI), Teho Teardo (Blixa Bargeld), Jim White (Dirty Three, Tex Perkins, Cat Power, Xylouris-White) e Georgos Xylouris (Xylouris-White). Anzi, fate uno sforzo a immaginare tutti i musicisti coinvolti qui e magari tutti i molteplici musicisti usati da Capossela in 30 anni di carriera discografica: la rappresentazione non sembra somigliare molto a Giuseppe Pellizza da Volpedo e al suo celebre dipinto Il quarto stato?
Ma tornando a quest’album, il tutto risulta un ciclo molto articolato e assai seducente; destinato a essere mutante, forse inafferrabile, ma sicuramente una bella sfida per l’ascoltatore – preso frontalmente, mai assecondato. Come accade profondamente nei momenti per noi fondamentali di questa nuova avventura. Forse il brano che svetta su tutto è La peste, che prende spunto dalla vicenda di Tiziana Cantone, ragazza napoletana suicida nel settembre 2016 a causa di una serie di ricatti per via di alcuni video privati a sfondo sessuale. A memoria, è anche la prima volta che Vinicio affronta un fatto di cronaca contemporaneo così apertamente, come hanno fatto tante volte sia uno dei suoi grandi estimatori come Francesco Guccini, sia uno dei folksinger per antonomasia degli anni 60 come Phil Ochs. Capossela, però, non fa un articolo-di-giornale-fatto-canzone ma lo fa alla sua maniera, decisamente avveniristica, con una musica rotonda ma cingolata e un testo vorticoso (geniale il passaggio “let’s tweet again”, degno dell’Alberto Camerini degli albori d’epoca Cramps) che dice/non dice e fatto di morte nera, epidemia, oscurità, distruzione, atrocità – tutto in memoria della povera Cantone, «Immolata alla colonna all’ultima pestilenza», come spiega lo stesso Capossela.
Nuove tentazioni di Sant’Antonio è l’altro pezzo apogeo di Uomini e bestie. Forse il brano più duro e punk inciso nell’intera carriera, non per niente con accanto Zamboni e Cavalli Cocchi ad assistere l’attacco frontale – e che, non stiamo scherzando, potremmo immaginare cantato da Giovanni Lindo Ferretti senza che vi fosse alcun che di strano. Le tentazioni dell’insigne abate che si calò all’Inferno per sottrarre al Diavolo del fuoco da portare fra gli uomini come scintilla di ragione, sono svecchiate ai giorni nostri dei media e della cultura mercificata. È un rincorrersi di versi veementi cantati con bile che sale: “Fare un deserto di ogni uomo e riempirlo di televisione”, “Togliere il sacro e lasciare i decreti/E al posto del Miracolo una fila di slot machine”, “Artificiare l’immaginazione/Fare selfie in masturbazione/Fare sesso in digi-grafia/Sostituire il desiderio con la pornografia”. In concerto sarà un uragano che investirà le platee.
Scelto come apripista all’opera, Il povero Cristo è una ballata fra le cose più dylaniane incise da Vinicio. Il Bob Dylan contemporaneo, tuttavia: quello degli ultimi dischi tipo Together Through Life (2009) e che nel caso di Capossela, per fortuna, non sposa i cliché oramai logori di Francesco De Gregori, poiché lui ne fa una cosa propria con, semmai, alle spalle un padre nobile (e Nobel). Il testo è puro Vangelo secondo Matteo pasoliniano portato al secondo decennio del primo secolo-secondo millennio, dove “Il povero Cristo è sceso dalla croce/Si è messo sulla strada, va ascoltando voci/C’è chi lo tira a destra, chi lo tira a sinistra/Tutti lo vogliono primo nella loro lista/Ma piuttosto che da vivo a dare il buon ufficio/È meglio averlo zitto e morto in sacrificio”. E oltre che Pier Paolo Pasolini, chissà come mai qui viene in mente anche il Johnny Cash di un vecchio, clamoroso brano inciso nel 1968 (e che Nick Cave riprese come The Singer in Kicking Against The Pricks, 1986), capolavoro che recita parole assonanti a quelle vergate qui da Capossela, associando il suo ruolo di cantante popolare a quello di Cristo: “As I walk these narrow streets where a million passing feet have tried before me/With my guitar in my hand suddenly I realize nobody knows me/Where yesterday the multitude screamed and cried my name out for a song/The day the streets are empty and the crowds have all gone home/I pass a million houses but there is no place where I belong”. Pezzo che Cash finiva con 2 laconiche domande: “Did you forget the Folk Singer so soon? And did you forget my song?”.
La poliedricità musicale di Capossela viene fuori anche nella sequenza Il testamento del porco e Ballata del carcere di Reading, quest’ultimo adattamento in italiano da un componimento poetico di Oscar Wilde. Vinicio, fin da tempi non sospetti, ha sempre avuto una sana passione per Shane MacGowan – solo che qui non è l’Irlanda punk dei Pogues bensì quella più squisitamente folk dei Chieftains e dei Planxty: gruppo, quest’ultimo, che già negli anni 70 guardava a est come ha fatto tante volte l’artista italiano. Chiunque appena avvezzo a Christy Moore, Donal Lunny, Andy Irvine e Liam O’Flynn, per molti i sacri Beatles Irish Folk, udito lo stacco strumentale del pezzo tratto da Wilde non potrà che esclamare “per Dio, questi sono i Planxty!”. Lo capiremmo – e asseconderemmo.
Le Loup Garou, infine, plasma bene il cliché licantropo che un po’ da sempre avvolge la figura di Vinicio; e, anzi, strano che un pezzo sia venuto fuori solo adesso. Tanto Bad Seeds, tocchi nascosti di Bone Machine waitsiano, forse reminiscenze di Werewolves Of London (Warren Zevon) – e sopratutto l’occasione di unire il duo cretese-australiano Xylouris-White (consiglio spassionato a chi ne sia ignaro: ascoltare i loro 3 album e, possibilmente, andare a vederli live) a Ribot-Stefana per un veglione mannaro sfrenato, dove la luna è attraversata da nubi che promettono metamorfosi – e forse anche catarsi. Aah-hooouuuuù.