In termini di produttività, chi riesce a star dietro al Van Morrison degli ultimi anni vuol dire che ha resistenza: 1 album nel 2015, 1 nel 2016, 2 nel 2017, 2 nel 2018 – e non stiamo a parlare delle ristampe/antologie con inediti. Capiremmo, altresì, chi si sia stufato – ma Three Chords And The Truth è quel disco del Belfast Cowboy che non ti aspetti, il colpo d’ala di uno fra i più grandi artisti emersi negli anni 60 e che in tutti questi decenni ha imposto la sua figura al più alto grado di autorevolezza artistica. Un disco che lo metti su e ti viene d’esclamare che si tratti dell’usuale disco di Van, solo che stavolta è una bomba dall’inizio alla fine dei 14 brani per quasi 1 ora e 10 di musica.

Prima di tutto salta all’occhio che Morrison ha chiamato a sé gente che con la sua musica in passato ha sicuramente avuto grande impatto: nientemeno che il chitarrista di Astral Weeks (1968), il maiuscolo Jay Berliner, maestro della seicorde che negli anni ha graziato anche l’opera, fra gli altri, di gente quale Harry Belafonte, Herbie Mann, Charles Mingus e Laura Nyro; nonché un pilastro della Caledonia Soul Orchestra, il magico gruppo di Van epoca Hard Nose The Highway (1973)/It’s Too Late To Stop Now (1974), come il bassista David Hayes e la grandissima percussionista/vibrafonista Teena Lyle, che con lo scorbutico nord irlandese ha fatto grandi cose nei primi anni 90. Poi metteteci che Van nel cantare lungo tutto l’album sfodera la grinta di uno che alle calcagna ha il Diavolo con il forcone e che la vena compositiva lascia da parte qualsiasi romanticismo e qualsiasi lungaggine – qui l’ex Them ha misurato tutto ma è pure andato dritto al cuore della propria musica, senza fare prigionieri.

D’accordo, con una carriera di oltre 50 primavere iniziata professionalmente intorno ai 17 anni, le sorprese che bisogna attendersi ovviamente non possono essere molte – ma quello che promette nel titolo Three Chords And The Truth, lo trovate tutto. 3 accordi e la verità, punto. E quando Van ti scaraventa addosso i quasi 8 minuti di Days Gone By, che non sfigurerebbero in Into The Music (1979); oppure i 6 di Dark Night Of The Soul, notturno blues che riempie l’aria e l’anima – ecco, quando Van ti scaraventa addosso meraviglie del genere capisci che come lui ne hanno fatto 1 e poi hanno buttato via la matrice, nonostante la pletora di imitatori che ha generato.

Il disco macina veramente musica e spunti di gran spessore, tipo il groove latino della title track; le delicatezze di March Winds In February, con Berliner magnifico che fa viaggiare sulle onde delle settimane astrali; il lungo, lento incedere a 12 battute di You Don’t Understand e di Up On Broadway, incantesimo di un vero mago; il valzer country di Bags Under My Eyes che più Willie Nelson di così si muore (a proposito, la session dei 2 avvenuta nel 2018 che fine avrà fatto?); il tiro vispo di Nobody In Charge che profuma non poco di Bert Berns/Bang Records; come del resto i 60s risplendono in Fame Will Eat The Soul, duetto con addirittura Bill Medley dei Righteous Brothers, duo blue-eyed soul che grazie a Phil Spector stracciò le classifiche con classici per tutte le stagioni (You’ve Lost That Lovin’ Feelin’, Unchained Melody, Just Once In My Life). Tutti numeri che solo chi ha provato, fallito e riprovato di nuovo a fare grande musica può permettersi. Già, i famosi 3 accordi e la verità!

Foto: © Jill Furmanovsky