Da grandi fan che siamo (stati) dei Waterboys, sono 3 decenni che ogni volta che ci avviciniamo a un loro nuovo album scocca la fatidica domanda: che pasticcio avrà combinato Mike Scott, stavolta? E il nuovissimo Good Luck, Seeker non fa eccezione. Tolte le operazioni nostalgia tipo Fisherman’s Box (2013), disco + magnifico tour che rinverdiva i fasti di Fisherman’s Blues (1988), pressoché l’intera discografia dei Porta Borracce (siamo pronti alla guerra con chiunque traduca il loro nome in “ragazzi d’acqua”, come troppo spesso abbiamo letto più o meno dal day 1 – fra l’altro, “waterboy” potrebbe essere tradotto ancor più precisamente con “galoppino”) post Room To Roam (1990) potrebbe essere quasi uno studio psichiatrico sulla perdita d’identità. Quella del loro leader.

The Waterboys

Mike Scott e il suo gruppo anglo-scotto-irlandese sono stati una fra le colonne della musica anni 80 non dedita alla ricerca del trend-ismo yuppie, saldissima nelle radici che affondavano in Bob Dylan e Thin Lizzy, Van Morrison e David Bowie, Panxty/Moving Hearts e Iggy Pop, Patti Smith e John Martyn, Richard Thompson e Pretenders, Dexys Midnight Runners e Bruce Springsteen, John Lennon e Lou Reed (ricordiamo che il nome del gruppo fu preso da un passaggio di The Kids, il centerpiece di Berlin: “And I am the Water Boy, the real game’s not over here but my heart is overflowin’ anyway“…) – dopodiché è stato un arrampicarsi sui vetri a larghi tratti imbarazzante, fatto di album senza capo né coda come A Rock In The Weary Land (2000) oppure Book Of Lightning (2007) – unica eccezione, forse, An Appointment With Mr Yeats (2011), che rimaneggiava un po’ del glorioso folk-rock dei secondi 80s nel nome del grande poeta irlandese William Butler Yeats (1865-1939). Il peggio è arrivato proprio negli anni più recenti, con la tetralogia iniziata con Modern Blues (2015) e che ora giunge a questo Good Luck, Seeker – trionfo di quello che in UK, quando qualche ex grande artista finisce a fare musica insulsa e senza carattere, chiamano “dad’s rock” – il rock di papà. Niente di offensivo ma, semplicemente, eloquente.

Ascolti e riascolti per intero l’opera – e, davvero, cascano le braccia: la mancanza d’ispirazione compositiva non finisce lì ma è peggiorata da scelte di suoni e di produzione che davvero lasciano sconcertati. Prendete Dennis Hopper, come si evince omaggio al famoso attore-regista scomparso una decina d’anni or sono: brutta roba anni 80 mal concepita, suoni in gran parte sintetici che cercano forse Prince ma, in verità, fanno una chiara figuraccia per 3 minuti. Orrendo anche il videoclip, con Scott che sembra fare un’involontaria caricatura del connazionale Bobby Gillespie (Primal Scream). Se non siete contenti, poco fanno per alzare il livello praticamente tutti gli altri pezzi: tipo (You’ve Got To) Kiss A Frog Or Two, atmosfera pop contemporanea con irritanti falsetti piantati ovunque; Low Down In The Broom, ballatona enfatica che più che la gloria Waterboys richiama i cliché di molte band ben note oggidì, dai Coldplay ai Mumford & Sons; My Wanderings In The Weary Land, hard rock finto Jimi Hendrix che lascia un gusto francamente spiacevole; Postcard From The Celtic Dreamtime, uscita ingolfata di atmosfere fra talkin’ folk e new age; fino a The Land Of Sunset, ennesimo numero confuso, che nell’occasione potrebbe rimandare a Peter Gabriel ma senza un’oncia della classe dell’ex Genesis.

Mike Scott

Siccome anche nel pastrocchio più bizzarro qualcosa d’interessante si riesce (quasi) sempre a trovarlo, tentiamo di fare i buoni: qui trattasi di The Soul Singer, ballata uptempo carica di tutto compresi fiati sparati come come fuochi d’artificio, che suona un po’ Rod Stewart e un po’ Dexys ma che, soprattutto, è un esplicito omaggio a Van Morrison, con quei versi diretti al Belfast Cowboy che sono “He gets away with being rude cos everyone’s scared of his quicksilver moods/He’s been around for fifty years“.

Per far sì che la tortura non sia racchiusa solo in quasi 50 minuti, come nei dischi recenti Mike Scott rifila anche l’edizione deluxe che consiste in un Cd extra lungo 35 minuti di demo, strumentali, sketch vari: ci siamo addentrati anche lì e, purtroppo, ne avremmo fatto davvero a meno. Spiace dirlo, specie ai fan più duri e puri che, però, con i Waterboys vivono da molto di sola nostalgia: la big music se n’è andata e non vuol più tornare, ahinoi.