Alla fatidica domanda “Beatles o Stones?”, l’unico modo per fare un figurone, per essere i più cool e un po’ perversi, è rispondere… Kinks! E dalle nostre parti ne siamo convinti ben oltre l’essere cool e perversi! Ray Davies è l’epitome dell’autore all English, una specie di Bob Dylan poco pointed fingers ma molto mordace – nato e cresciuto a Muswell Hill, gran tifoso dell’Arsenal, che ama i pub e sopratutto le storie che si sentono lì dentro per poi trasformarle in (grandissime) canzoni. Insomma, se dobbiamo scegliere un-genio-uno della Swingin’ London, fra autoctoni nati in riva al Tamigi e tutti quelli attratti nella City come miele per le api, qui di dubbi non ne abbiamo: costui è il leader dei Pervertiti, i Kinks.

50 anni fa esatti usciva 1 dei loro più grandi dischi-capolavoro, Arthur Or The Decline And Fall Of The British Empire, che dopo The Village Green Preservation Society (1968) è il loro 2° concept album – nel pieno della bagarre che vedeva Pretty Things e Who (ma anche Mark Wirtz con A Teenage Opera – e diversi altri) giocare un ruolo di primo piano nel così detto campo delle rock opera. La band, in verità, soffriva: i loro coetanei, dai Beatles ai Rolling Stones fino al pischello Jimmy Page che bazzicava le loro session qualche annetto prima, erano nel pieno del successo, ricchi-famosi-adorati – mentre i Kinks, qualità artistiche a parte, sgobbavano come hard workin’ men per sbarcare il lunario, colpa anche di vicissitudini e fato avversi come, per esempio, in U.S.A. dove per qualche anno furono letteralmente banditi (in un momento cruciale fra Monterey e Woodstock). Arthur, tuttavia, ebbe gran responso critico e anche buone vendite, in 1 anno davvero colmo di grandissimi dischi come il 1969: Let It Bleed, New York Tendaberry, The Band, Everybody Knows This Is Nowhere, Soul ’69, Basket Of Light, The Velvet Underground, Happy Trails, Tommy, Uncle Meat/Hot Rats, Abbey Road, Unhalfbricking/Liege & Lief, Unicorn, Songs From A Room, Led Zeppelin I/Led Zeppelin II, Stand!, Live/Dead, Then Play On, Volunteers, The Stooges, Ummagumma, Kick Out The Jams, In The Court Of The Crimson King, Crosby, Stills & Nashdiosacosaltro. Meritata, quindi, questa ristampa che parte da un’edizione di soli 4 Cd e arriva, per i più esosi, a un’edizione supermegadeluxe di una quindicina di “pezzi” fra Cd, Lp e singoli nonché memorabilia varia. Che è molto, ma proprio molto rivelatrice – svelando tante cose che fanno godere ogni well-respected Kinksofilo, noi per primi.

Il disco è quintessenza Ray Davies. L’ispirazione per Arthur Or The Decline And Fall Of The British Empire nasce da un fatto che colpì molto l’àlveo famigliare dei Davies: nel 1964 la sorella più anziana di Ray e Dave, Rose, partì con il marito Arthur alla volta dell’Australia, in cerca di fortuna e ricchezza che non riuscivano a trovare in UK. Già nel 1966 Ray scrisse un brano sull’argomento, lo splendido Rosy Won’t You Please Come Home che trovate nell’album Face To Face. Da lì partì tutto. Ray si inventò il character Arthur Morgan (in verità il cognato di cognome faceva Anning), piastrellista depresso che non riesce ad avere una vita dignitosa e che prende armi, bagagli, moglie, figlio & nuora e nipoti destinazione Nuovo Mondo – dove l’Impero Britannico, coi tempi che cambiano, è appunto in pieno declino e caduta. Davies naturalmente appronta un plot fra dramma e commedia, storia e fantasia – e che sopratutto aggiunge nuovi clamorosi classici al già pingue Kinks songbook, vedi Victoria, Mr. Churchill Says, Australia, lo stesso tema Arthur, Yes Sir No Sir e, su tutto, la splendida, dolente ballata barocca Shangri-La, spettacolare crescendo di brit-music pieno di finezze degne appunto di genio qual è Brother Ray.

La ristampa riporta edizioni stereo e mono, pezzi persi nei meandri del tempo come lo splendido trip psichedelico King Kong (all’epoca presente nella versione mono ma escluso in quella stereo), ovviamente alternate version dei vari classici, qualche ripresa postuma by Ray, versioni teatrali, BBC sessiondemo, finanche un paio di take addirittura doo-wop (Arthur e l’inedito The Future) fra Dion e Harry Belafonte. Per tutti coloro che si sono fatti sfuggire le antologie The Album That Never Was (1987), Anthology/Unfinished Business (1998) e Hidden Treasure (2011), tutte di Dave Davies, ecco che Arthur 2019 porta in dote anche il famoso disco inciso in parallelo a quello del gruppo e rimasto nei cassetti per decenni.

Brother Dave voleva spiccare il salto in proprio dopo che nel 1967 la sua Death Of A Clown volò molto alta nelle chart UK, cui seguì la buona performance anche di Susannah’s Still Alive – e in quei mesi dove Ray scalava vette fra le più alte della musica britannica, anche lui giocò la sua partita. Mise insieme tutto il materiale per un album che aveva già un titolo, A Hole In The Sock Of Dave Davies (titolo kinks-issimo), che la storica etichetta della band, la Pye Records, testò con 2 singoli, Lincoln County e Hold My Hand, entrambi molto buoni all’ascolto ma impietosamente flop nelle classifiche. E fu così che A Hole In The Sock Of Dave Davies fu messo da parte.

In questo cofanetto brilla quanto fu assemblato: la bellezza di 23 brani divisi in 2 Cd (il 2° fatto di demo, prove rough, etc), tutti editi nelle raccolte già evocate tranne I’m Crying, che sono lì a marcare, e non poco, la miopia di chi decise per l’oblio – anche perché Dave Davies, stretto dall’ovvia towering figure del fratello Ray e per di più da colleghi “eroi della chitarra” più celebrati (la triade Eric ClaptonJeff BeckJimmy Page, sopratutto), ha certamente raccolto meno di quanto seminato in termini di riconoscimento, come autore/frontman e come maestro dello strumento con il suo stile assolutamente perfetto, sia nell’heavy sia nel soft. Nel 2019 è più che giusto restituirgli la gloria che in parte gli fu negata – e che in questo iper deluxe box set di Arthur Or The Decline And Fall Of The British Empire si schiude brillantissima.