Contrariamente a Detroit, Londra, Melbourne, New York, San Francisco, Manchester – sul punk Los Angeles arrivò sostanzialmente in ritardo. All’inizio con i Flesh Eaters, poi con i Germs e infine con gli X – ma il ciclone da altre parti era già passato ben prima, sconquassando tutto e tutti. Sarà che il sole della California ogni tanto un po’ di ozio lo dà; sarà che Hollywood e dintorni negli anni 70 erano diventatati dimora o comunque luogo di sollazzi per molte rockstararrivate” sebbene ancora nel pieno dei giochi (Bob Dylan, Led Zeppelin, John Lennon, David Bowie…); sarà che l’apparente goodtime prima dei Beach Boys e poi degli Eagles aveva forse un ascendente più forte di qualunque altra cosa, Ramones e Sex Pistols in primis. Fatto sta che la Città degli Angeli se la prese comoda – solo in seguito diventò punto d’incontro di quella cultura, divenendo il posto dove andare se eri punk negli anni 80, all’ombra del mito di John Doe & Exene Cervenka e di tutti i gruppi SST (Minutemen su tutti). Premessa d’obbligo che serve a fotografare il contesto di quel periodo.

The Gun Club

È da quelle terre assolate ma con un che di nefando che le pervade, un po’ come la Chinatown (1974) consegnata all’eternità da Roman Polanski e Jack Nicholson ma anche all’opera letteraria di Raymond Chandler, quella cinematografica della classica Hollywood a tinte noir 40s/50s e quella musicale dei Doors, che nacquero i Gun Club di Jeffrey Lee Pierce (1958-1996), una delle cult band essenziali degli anni 80, perfetto epitome dell’estetica “born to lose” – i nati per perdere, che in ambito rock hanno offerto il meglio del decennio reaganiano. Qui tocca celebrare forse il loro masterclass album, Miami (1982) – sebbene se la giochi, e non poco, con l’esordio Fire Of Love (1981), prodotto da Chris D. (Flesh Eaters) e Tito Larriva (Plugz). Competizione irrisoria, peraltro – siccome si tratta di 2 opere a dir poco fondamentali della musica americana di quegli anni turbolenti, cruciali e dolorosi, da “gioco del falco” per dirla con il titolo di un film del 1985 di John Schlesinger con Sean Penn e Timothy Hutton (nonché grande musica by Pat Metheny e Lyle Mays, cameo di David Bowie compreso).

Jeffrey Lee Pierce

L’album è ora pubblicato in una versione doppia, con i 12 pezzi originali nel Cd 1 e la bellezza di 18 numeri fra demo e titoli del tutto inediti nel Cd 2. Per chi ha il culto del Club della Pistola una vera manna, non vi è che dire. Il disco è la perfetta esaltazione della passione giovanile di Jeffrey Lee per i Blondie (di cui curava una fanzine dedicata ed era a capo dell’international fanclub) – visto che chiamato a produrre il tutto fu nientemeno che Chris Stein, il co-leader della band newyorchese con in frontline la compagna d’amore & arte Debbie Harry. La somma delle parti, a smentita del detto che afferma non dare i risultati attesi, fu puro stato di grazia: Stein coglie perfettamente l’attimo, non sbaglia una virgola nel fissare nei nastri quei vogliosissimi giovani ragazzi della West Coast; d’altra parte, JLP è al massimo dei giri come songwriter e, soprattutto, come rocker tarantolato con lo shining brillantissimo. A coronare il meeting, la doppia voce femminile che sentite qui e là nella quarantina di minuti che dura il lavoro è proprio quella di queen Debbie, che allora fra American Gigolò (1980), Armani e appunto carriera Blondie era probabilmente la più grande delle star americane femminucce, com’era lì a regnare – con Linda Ronstadt che aveva un po’ mollato la presa e con Madonna che doveva ancora incombere. Dettaglio: in Miami la sciura Harry la trovate accreditata con pseudonimo D.H. Laurence Jr. Altro dettaglio, la copertina dell’album: i Gun Club sotto un malevolo cielo verde, palme lisergiche e un pezzettino di palma nerissima che sbuca nell’angolo alto di sinistra – corredo così California-in-acido, certamente sublime. E il tutto è stato registrato a NYC e s’intitola Miami – amava perculare l’adorato JPL.

Jeffrey Lee Pierce con i Blondie

Jeffrey Lee era nei suoi primi 20 anni – ed era una di quelle creature randagie che da sempre popolano il rock and roll, nella fattispecie un po’ gemello-di-spirito di Nick Cave il quale, a quell’epoca, era nel pieno della trasformazione da Birthday Party a Bad Seeds. Narrano le cronache che, fra sbornie colossali e abuso di droga, ad affliggere il leader fosse anche la salute, con l’epatite che non gli dava tregua – ed è forse per questo che in tutto Miami si coglie una tesissima sofferenza che pervade i solchi, dove il blues di Muddy Waters e di Howlin’ Wolf si mischia con lo swamp dei Creedence Clearwater Revival, di Dr. John e di Tony Joe White, il tutto legato da una persistente schizofrenìa punk. Scintillanti suoni di chitarra, basso propulsivo e percussioni locomotive, che legano le infervorate litanìe a 12 battute del Club: il travolgente tiro Doors dell’opener Calling Me Home; il voodoo infervorato di Like Calling Up Thunder; il medicine show a sfumature sacrali Brother And Sister; lo spettacolo della più bella cover dei CCR fatta da chiunque, Run Through The Jungle; il rockabilly fra gospel e Jim Morrison all’ultimo stadio Devil In The Woods; la lacerante Texas Serenade, eccezionale racconto di un veterano della Sporca Guerra, quella nel Vietnam, morto solo e abbandonato in un’anonima cittadina del Texas – roba che anticipa di non poco tutti i Rambo e i Born in the U.S.A. degli anni 80. Prima facciata assolutamente clamorosa, di quelle consegnate a futura memoria.

Insieme a Nick Cave, 1991

La seconda non fa calare la tensione, come si evince già dai toni obliqui a mestica perversa di Watermelon Man, dove le voci di JPL e di Debbie sono puro vento che batte nel deserto, fra terrore e gemiti; da Bad Indian, che promette pozioni magiche a colpi di ringhiate bramose; dal tiro del leggendario traditional John Hardy, fra il Bob Dylan 1965 sponda elettrica di Bringing It All Back Home e Johnny Cash; da Fire Of Love (voglia di confondere con il 1° album inclusa) del grandissimo rocker vagabondo degli anni 50 Jody Reynolds, puro atto dinamitardo nelle mani del Club (by the way, chi rammenta la cover degli MC5?); da Sleeping In Blood City, roba da stigmate-vesciche alle mani talmente è l’esplosione di potenza sonora: e da Mother Of Earth, country-folk cantato con vocione profondo che è il perfetto commiato a quello che in todo spontaneamente vien di definire un capolavoro.

Il Cd inedito è quantomeno sintomatico di quanto furono in palla i Gun Club vintage 1982. Già, perché lo fai girare e subito ci si rende conto quanto fossero completamente formate le canzoni prima che la band incidesse nella Grande Mela con Stein. Anche qui JPL s’impone squarciando anima e cuore dell’ascoltatore col suo taglio di fired up magnetico predicatore/prestigiatore. Fra la quasi ventina di numeri anche diversi inediti – vedi Prune Dicks From Mars, Vampires, Journey To Zatar, Blue Hair e Pig Boys – ma soprattutto lo strepitoso, scheletrico demo di Walkin’ With The Beast, ode di venerazione incondizionata per Blondie Harry che apparirà un paio di anni dopo, in The Las Vegas Story (1984), nelle note di copertina disco esplicitamente dedicato a miss Blondie per «il suo amore, aiuto e incoraggiamento».

Con Chris Stein i Gun Club diedero vita a un’appendice – ossia l’Ep Death Party (1983), che vedeva coinvolta anche la grande rockeuse Texacala Jones (Tex & The Horseheads), all’epoca con JPL compagna di amore (e di consumo proibito vario ed eventuale). Ma questa è un’altra storia. Noi ci fermiamo a quella di Miami, perfetta fusione di grande rock con il seducente caos della mente di Jeffrey Lee Pierce, uno di quegli “eroi nati per perdere” di cui si sente davvero la mancanza oggidì – e che con questo album inciso quasi 40 anni fa ha illuminato suoni e personaggi delle sue ossessioni più profonde, dichiarando al mondo che la «realtà è dannata». Perché davvero «Non c’è niente di così irreale come la vita» – parola di Gun Club.