Alla prima occasione che vi ritroverete davanti a una commissione d’esame universitario, quando vi chiederanno dove sia nato il così detto britpop, voi tranquillamente rispondetegli che è nato in Nuova Zelanda. I membri della commissione vi guarderanno fra lo storto e l’allibito, tipo “ma cosa sta dicendo questo qui?!??”, ed ex cathedra con tanta insolenza vi manderanno a casa – ma voi, ve lo garantiamo, avrete ragione e, anzi, vi meritereste un bel 30. Il nome chiave, naturalmente, è la Flying Nun Records, etichetta fondata nel 1981 in quel di Christchurch da Roger Shepherd, negoziante di dischi che aveva capito che laggiù, nella terra dei già favolosi Split Enz di Tim FinnPhil JuddNeil Finn, dei Maori, del verde incontaminato che tutt’intorno è Oceano Pacifico e degli uccelli kiwi, stava davvero succedendo qualcosa. Non aveva torto: lungo tutti gli anni 80 apparvero gruppi come Clean, Bats, Jean-Paul Sartre Experience, Tall Dwarfs, Verlaines, Straitjacket Fits e 3D’s, che negli ambienti underground americani e, soprattutto, britannici divennero dei veri punti di riferimento. Su tutti, naturalmente, i Chills di Martin Phillipps from Dunedin, la band che più di ogni altra ha rappresentato il sogno del “pop paradisiaco” neozelandese – nonché quella più di successo.

The Chills

La benemerita Fire Records, una delle etichette più attive in questi anni fra dischi nuovi e ristampe di gran pregio, ha appena riedito ben 2 lavori dei Chills: Submarine Bells (1990) e Soft Bomb (1992), gli album che lanciarono la formazione a livello internazionale dopo le uscite Flying Nun degli anni precedenti: a pubblicarli fu la Slash Records, etichetta satellite della Warner, che nel decennio ReaganThatcher aveva sostenuto fra il meglio dei nuovi gruppi USA, vedi X, Blasters e Los Lobos. Dopo anni di distanza quei dischi restano, a dir poco, splendidi – senza dubbio capaci di anticipare quanto poi avrebbe reso celebri e milionarie band di Motherland England come Blur e Oasis, con il piccolo “difetto di fabbricazione” che i Chills non erano nati nel posto giusto né potevano contare su una stampa, da Melody Maker a NME, che li incubasse con campagne fra il fotoromanzo e il proto-reality. Tant’è.

Submarine Bells è il trionfo del suono made in Chills. Basterebbe solo Heavenly Pop Hit, l’hit pop paradisiaco e signature song di Phillipps & soci – spettacolare apripista che sapeva condensare Velvet Underground e Beatles, Byrds e Kinks, Alex Chilton e Beach Boys; gioiello di sintesi che raramente è capitato di udire nei gruppi di quella generazione, roba da far invidia a tutti i ReplacementsSmithsR.E.M.Hüsker DüFeelies di questo mondo. Musica effervescente, che con quel quid esotico di chi proviene dalla “fine del mondo” mette euforia. Naturalmente è solo l’inizio di un treno lanciato in corsa, dove pezzi a dir poco clamorosi come The Oncoming Day, Familiarity Breeds Contempt, Submarine Bells, I Soar, Tied Up In Chain e Don’t Be-Memory, sono un roller coaster di emozioni e di stile incontenibile, con mastro Martin perfetto sia nei contenuti sia nell’esposizione. “Davvero un bel disco, solo trentasei minuti e non un secondo sprecato“, recitava una famosa recensione dell’epoca – e, ancora adesso, non si può che convenire.

Martin Phillipps

La diamantina bellezza di Heavenly Pop Hit e il relativo buon successo anche oltre gli ambienti alternative, fanno ben sperare per il successivo Soft Bomb – anche perché, nel biennio 90-92, nel mondo musicale è cambiato tutto con l’esplosione planetaria dei R.E.M. e nuove leve come Nirvana e Pearl Jam a dettar legge nelle charts. Ma Phillipps è una testa calda, tanto che in momento così cruciale addirittura scioglie la band e va avanti da solo, sebbene mettendo il nome Chills (un po’ come fece Paul Westerberg con All Shook Down del 1990, l’ultima uscita dei Replacements). Vista la disponibilità finanziaria di casa Warner, l’idea è quella di metter insieme un disco molto ambizioso, addirittura un concept album, dove in formazione è attirato Peter Holsapple (con Chris Stamey cofondatore dei dB’s, come pure assiduo collaboratore dei R.E.M.) e con un ospite di primo piano quale Van Dyke Parks.

Azzardiamo, addirittura, che sia il tentativo Chills di approntare anni 90 un personale Smile (1966-67), il famoso disco dei Beach Boys abortito e mitizzato nonché stretta collaborazione di Brian Wilson con, appunto, Parks. Musica eccentrica, avveniristica e composita, insomma – oltre che in netta controtendenza rispetto all’epoca di pubblicazione del lavoro, leggi che gente come Beck ed Eels doveva ancora imporsi (e avere successo). Lo dimostrano eccezionali momenti come Song For Randy Newman, Etc., con Phillipps seduto al piano a dipingere note angolari; l’eccezione pop sinfonico Water Wolves, dove il tocco di Parks agli arrangiamenti è a dir poco impagabile; il riff duro di Background Affair; l’etereo jingle-jangle Male Monster From The Id, quasi un tentativo di riscrivere Heavenly Pop Hit senza esser una smaccata copia carbone; oppure il gioco di specchi & note Strange Case, impossibile o quasi Beach Boys meet Velvet Underground. In sintesi, Soft Bomb abbraccia stili e generi in cerca di una sottile coerenza a cottura lenta: basta dargli tempo e la soddisfazione sarà più che garantita.