Eccoci in un altro anno di celebrazioni e memoriali: ahimé, è già passato mezzo secolo dal fatale 1968. Ovunque impazza l’uragano delle testimonianze: tutti a raccontare la propria versione di quei 12 mesi incaricati di rivoluzionare il mondo. Ma forse la Storia non procede proprio così. Forse i cambiamenti, quando ci sono, non si danno appuntamento tutti insieme alla stessa ora (o giorno o mese o anno). Forse il tempo si applica, con un suo lavorio continuo e meticoloso, a trasformare le cose dentro e fuori di noi e, quando ci sembra di sentire una scossa sismica un po’ più forte del solito, ci convinciamo che tutto è accaduto in quel momento. Tuttavia, basta esaminare con attenzione le diverse testimonianze per accorgersi che ognuno ha vissuto diversamente quelle esperienze; e che non le ha vissute comunque sganciate da altre esperienze capitate prima o dopo, magari un po’ accidentalmente…

Sì, anch’io c’ero nel ’68. Anzi, c’ero da una bella manciata d’anni: ero ancora giovane, ma non più giovanissimo. Facevo già da qualche tempo le mie mattane e ne ero orgoglioso; mi ero stufato di fare il beatnik di provincia ed ero finito da poco a pelandronare in un’università britannica. Quell’anno per me si era aperto alla grande: ero diventato padre di una bella bambinona, che avevo battezzato col nome della protagonista di Guerra e Pace: 2 parole allora di grande attualità. Anche in Italia era da un po’ che si portava i capelli lunghi come i coetanei americani, si manifestava contro la guerra in Vietnam e si sognava di fare teatro d’avanguardia. Pier Paolo Pasolini ci ricordava che c’erano più figli del proletariato tra i poliziotti che tra gli studenti universitari, ma quella voce nel deserto non bastava a metterci in crisi.

Nelle università inglesi il clima era piuttosto diverso: i ragazzi discutevano di riformare i corsi di studio con i docenti, per lo più civilmente davanti a una tazza di tè. Con i miei studenti parlavo spesso di musica: era l’anno d’oro di Crosby, Stills, Nash & Young e del White Album dei Beatles. Una delle ragazze (occhi verdi e frangetta nera da esistenzialista) affermava che il rock non le interessava più da quando si erano sciolti i Cream. Io replicavo che mi sembravano molto più interessanti i Soft Machine e i Velvet Underground (che ancora non si erano sciolti) o Jimi Hendrix e Janis Joplin (che ancora non si erano autoeliminati). E comunque la vera rivoluzione l’aveva cominciata Miles Davis circa un decennio prima. Loro mi guardavano un po’ perplessi; poi m’invitavano a farmi una pinta con loro nel pub più vicino.

Una mattina mi è arrivata dall’Italia una lettera di un caro amico che durante l’affissione notturna di “manifestini rivoluzionari” era stato messo in fuga da alcuni spari. Mi colpì una sua frase scritta e sottolineata: “Abbiamo ancora in bocca il sapore del piombo”. Gli risposi duramente, accusandolo di “retorica eroicomica”. Ma se provo a riflettere sui cialtroneschi tempi d’oggi, non mi sembra che il clima sia molto diverso; anzi, quella di allora poteva anche essere una innocua scacciacani, quelle di adesso certamente no. Dunque davvero il ’68 ha cambiato il mondo? Qualche dubbio mi rimane.

Forse una svolta radicale c’è stata più nel costume che nella politica o nella cultura: da quell’anno la società è diventata molto più giovanilista. Ma c’è da chiedersi fino a che punto sia stato un gran regalo e per chi: non certo per le nuove generazioni, sempre più spinte nella deriva consumista, sempre più illuse dai media del loro protagonismo, sempre più  lontane dalla consapevolezza del passato e dalle speranze nel futuro. Eppure qualcosa per loro si potrebbe ancora fare: magari cambiare il mondo, dentro e fuori di noi. Ma non è mica facile.

Foto: Umberto Mariani, Winchester, © Fabrizio Stipari
Jimi Hendrix
Crosby, Stills, Nash & Young