Mandatory Credit: Photo by Dezo Hoffman/REX/Shutterstock (371705c) SCOTT WALKER VARIOUS

La realtà è dura, amara. Ogni giorno ci alziamo, ci colleghiamo e brandelli di vita, oltre che grandi artisti, se ne vanno. Lou Reed. David Bowie. Prince. Merle Haggard. Tom Petty. Una lista infinita destinata solo a gonfiarsi a dismisura. L’ultimo a essersene andato che nel nostro angolo di cielo stava particolarmente a cuore è Scott Walker, uno di quelli che molti celebri musicisti veneravano come un dio-sceso-in-terra. Dal Thin White Duke a Nick Cave, da Jarvis Cocker (Pulp) a Morrissey, da Bryan Ferry a Gavin Friday (Virgin Prunes), da Richard Hawley a Thom Yorke (Radiohead), da Damon Albarn (Blur) fino a Marianne Faithfull – in tutti loro ha vissuto qualcosa dell’arte dell’enigmatico cantante nato nel pieno del Midwest yankee, in Ohio.  Giunta lo scorso marzo la notizia della sua morte, nella stampa nazionale dei “giornaloni” si è letto molto su di lui, con diversi scritti assolutamente bizzarri se non pieni d’inesattezze spesso clamorose. Finanche a uscite social del tutto fuori luogo, per tenore e fatti, di noti personaggi quali Morgan e Carlo Verdone (per saperne di più, se ignari, consultare i loro profili Facebook).

Tolti i classici riferimenti “wikipedici” (David Bowie, teen idol negli anni 60, recluso, musicista d’avanguardia), tutti con il minimo comune denominatore che non vi sia stato alcuno – tolte le citazioni d’obbligo a Jacques Brel (spesso a casaccio) – che abbia messo l’accento su come l’ex Walker Brothers, fra le tante cose, sia stato pure, un po’ come per Lee Hazlewood, un grandissimo interprete le cui esecuzioni hanno fatto spessissimo opera di “talent-scoutismo” in un’epoca dove le cose non si sapevano grazie giusto a una connessione web, ma perché l’artista si immergeva anima e corpo in quello che faceva prendendosi dei rischi. Nel nostro piccolo, vorremmo porre rimedio a questo macroscopico vulnus con quello che segue. Ossia la lista delle più belle 10 + 1 cover incise da Scott Walker, a nostro insindacabile giudizio e in rigoroso ordine cronologico. Perché come vuole il nome di questo web magazine, Walker è l’epitome del “cool” o della “coolness” che sia.

My Death/La Mort, Jacques Brel (1967)
Il viaggio nel cuore delle grandi interpretazioni di Scott Walker non può iniziare che da Jacques Brel, poiché in Scott (1967), Scott 2 (1968) e Scott 3 (1969) interpretò ben 9 volte l’artista belga. Interpretazioni che in seguito diedero pure forma a una compilation, spesso confusa per album originale, eloquentemente intitolata Scott Walker Sings Jacques Brel (1981) nonché amatissima dai vinilomani. Notare che tutte le traduzioni – tranne che Ne me quitte pas/If You Go Away per penna del poeta Rod McKuen – sono di Mort Shuman, leggendario pianista e songwriter newyorchese che con Doc Pomus scrisse innumerevoli classici per calibri tipo Dion, Elvis Presley, Drifters, Bobby Darin e Everly Brothers. La nostra scelta cade su My Death perché racchiude tutto del primo Walker: dramma interpretativo, “sturm und drang” trionfante e “wall of sound” spectoriano che già fu il copyright dei Walker Brothers. Senza contare che Ziggy Stardust la farà sua qualche anno più tardi quando sarà il momento di dare l’addio alle scene.

Black Sheep Boy, Tim Hardin (1968)
Certamente negli anni 60 una passione di Walker fu Tim Hardin, uno dei grandi junkie del folk rock americano a tinte astrali – Fred Neil, Karen Dalton, Tim Buckley, Vince Martin – del quale già con i Brothers eseguiva live la classica The Lady Came From Baltimore, che poi comparirà anche nel suo album del 1967. In Scott 2 regala Black Sheep Boy, da molti considerato il pezzo-capolavoro di Hardin: Scott ne incide una versione squisitamente folk rock puntellata da un’orchestra che fa tanto effetto finestre spalancate con brezza frizzante che entra in casa. Da respirare a pieni polmoni.

The Ballad Of Sacco And Vanzetti (Here’s To You), Joan Baez/Ennio Morricone (1972)
‘Til The Band Comes In (1970) chiude l’epoca dello Scott Walker cantautore (sui generis), mentre The Moviegoer (1972) apre quella dell’interprete che ridisegna l’orizzonte di come fare delle cover (Nick Cave & The Bad Seeds, tanti anni dopo, impareranno bene la lezione walkeriana in Kicking Against The Pricks del 1986, per esempio). E The Moviegoer parte da un’idea brillante: scegliere i temi guida di film particolarmente cari all’artista – grande appassionato della settima arte – e rifarli con il suo taglio elegante ma non elitario, distaccato ma sempre coinvolgente. Le pellicole scelte, fra le altre, sono The Ballad Of Joe Hill, The Godfather, Summer of ’42, Mary Queen Of Scots, I girasoli e They Shoot Horses, Don’t They? – fino a Sacco And Vanzetti, dove l’interpretazione di The Ballad Of Sacco And Vanzetti (Here’s To You) dell’artista anglo-americano vince ai punti con le molte versioni conosciute forse più famose.

Maria Bethânia, Caetano Veloso (1973)
I veri grandi album di cover realizzati nell’ambito rock, si contano sulle dita di una mano o poco più: li hanno incisi Laura Nyro, Nick Cave & The Bad Seeds, Bob Dylan, Giant Sand, Bryan Ferry, Ry Cooder. E Scott Walker, che ci è riuscito ben 3 volte: la prima con Any Day Now (1973). L’imbarazzo della scelta è ampio: vi si trovano versioni clamorose di Ain’t No Sunshine (Bill Withers) e di Cowboy (Randy Newman), un paio di stupendi Jimmy Webb (If Ships Were Made To Sail e All My Love’s Laughter) e tanto altro. Ma la palma va alla rivisitazione di Maria Bethânia, lettera-canzone di Caetano Veloso dedicata all’amata sorella-cantante durante l’esilio inglese del genio baiano. Scott ne fa una versione personalissima, dove il flusso ad ampio respiro dell’originale di Caetano è rovesciato su ritmi ossessivi che accentuano di paranoia la saudades di cui gronda il pezzo.

I’ll Be Home, Randy Newman (1973)
Il 1973 sembra essere davvero glorioso in tema di Walker/cover, come dimostra l’eccellente Stretch. Non mancano i già citati Withers, Webb e Newman, cui si aggiungono Dan Penn/Spooner Oldham, Tom T. Hall e Gerry Goffin & Carole King per un ciclo di riletture semplicemente perfetto. Appena dopo Brel, l’altro grande amore di Walker sembra proprio essere stato Randy Newman, giusto solo affidandosi ai numeri: sono ben 5 le sue canzoni incise nel corso degli anni. Tallona Harry Nilsson, in poche parole, che di pezzi firmati Newman ha fatto anche un intero album. La scelta cade su I’ll Be Home, che se possibile Scott fa ancora più triste sia dell’autore sia di Nillson. Testo che sa di Charles Bukowski e di Raymond Carver, fatto proprio con intensa fragilità rendendo lustro al genio assoluto del “piccolo e cattivo” collega.

Sunshine, Mickey Newbury (1973)
Uomo di gusto sopraffino qual era Scott, lo zenith di Stretch viene raggiunto dalle riletture di uno degli autori più amati da Elvis Presley: il cantautore texano con piglio country-baroque Mickey Newbury. 2 i brani scelti: Frisco Depot e sopratutto Sunshine, che l’artista dell’Ohio restituisce con un’interpretazione elegante, anthem-ica e vagamente “cocaine cowboy”. Beatitudine garantita del cielo infinito e dello splendere del sole.

Black Rose, Billy Joe Shaver (1974)
Con We Had It All arriva il terzo disco-capolavoro di cover nonché uno dei suoi vertici artistici. È un album di materiale essenzialmente country-folk che l’artista restituisce con grande aurea Cosmic American Music, per dirla con Gram Parsons. E un po’ come accadde per Honky Tonk Heroes (1973) di Waylon Jennings, il piatto forte sono le composizioni di uno fra i più grandi music outlaw americani, il texano Billy Joe Shaver. La scelta cade sulla stupenda Black Rose, southern gothic che gioca anche un po’ sul grottesco: il Diavolo, il Sud, l’acqua santa e la tentazione – in Black Rose non manca nulla e Scott Walker lo sapeva perfettamente. Versione definitiva di una canzone acme.

Sundown, Gordon Lightfoot (1974)
Visto che We Had It All è uno dei dischi top del cantante e il più bello fra quelli realizzati come interprete, si merita anch’esso doppia menzione come Stretch. Shaver a parte, fra un Donnie Fritts e un Paul Stookey, fra gli Eagles e un Jerry Reed, svetta la stupenda Sundown di Gordon Lightfoot. Per metà canzone d’amore e per metà junkie lament in onore della celebre compagna di Lightfoot, l’infamous Cathy Smith assurta alle cronache quale groupie della Band (tanto da avere un figlio che venne sarcasticamente ribattezzato “il figlio della Band”, poiché era ignoto chi fosse il padre fra Levon Helm, Rick Danko e Richard Manuel, anche se poi qualcuno puntò il ditino su Levon); per poi passare a Ron Wood e Keith Richards, dei quali è stata personal pusher; fino a essere la carnefice di John Belushi, poiché fu lei, fra le mura di una stanza del celebre Chateau Marmont Hotel di Los Angeles a iniettare al famoso attore comico gli 11 speedball fatali. In tutto questo, Scott Walker non c’entra nulla salvo che la sua versione di Sundown per piano-orchestra è colossale, indimenticabile, gloriosa.

No Regrets, Tom Rush (1975)
Arriva la metà degli anni 70 ed è tempo di reunion con i “fratelli” John Walker e Gary Walker: i teen idol di una decina d’anni prima sono dei 30enni compassati con intorno a loro l’aurea del mito. Si ripresentano con un disco di cover bello ed eclettico, capace di unire sotto lo stesso tetto Jerry Butler/Curtis Mayfield ed Emmylou Harris, senza scordare Kris Kristofferson di cui è immortalata I’ve Got To Have You in una versione da lode. Il biglietto da visita, in ogni caso, è lo stupendo anthem folk rock di Tom Rush che dà il titolo all’opera: Scott, John e Gary lo rendono “fat” al punto giusto, come d’obbligo a degli originali alfieri del “wall of sound” come loro.

Lines, Jerry Fuller (1976)
Il disco seguente dei Fratelli è una copia del precedente, fatto sempre di cover eclettiche: da Jimmy Cliff, a Jesse Winchester. E come nel predecessore, anche qui a svettare è il brano guida, il country ultra melodico a squarciagola Lines, firmato da una leggenda come Jerry Fuller, produttore e songwriter texano che fece scuola negli anni 60-70.

I Threw It All Away, Bob Dylan (1996)
Passano diversi lustri (ecco spiegato il + 1) e nel frattempo Scott Walker diviene sempre più misterioso ma anche capace di reinventarsi con dischi di assoluto culto come Climate Of Hunter (1983), pubblicamente incensato dai “bei David”, Sylvian e Bowie, e Tilt (1996). Per la colonna sonora del secondo film di John Hillcoat, To Have & To Hold, curata da Cave con i sodali Bad Seeds Blixa Bargeld e Mick Harvey pare su esplicita richiesta di Nick che ha sempre avuto un’adorazione speciale per il brano, incide una delle più belle canzoni d’amore di Bob Dylan, I Threw It All Away, con l’ausilio di Barry Adamson (Magazine, Bad Seeds, Iggy Pop) che la produce. Come si dice in questi casi, Walker infila il pezzo come una mano farebbe in un guanto: alla perfezione.

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