Com’era logico attendersi, il ritorno discografico di Ryan Adams dopo la tempesta che lo ha travolto all’inizio del 2019 in piena pandemìa Me Too ha fatto discutere, ha fatto puntare il ditino ai senzamacchia e ha fatto sputare sentenze ai molti leoni-da-tastiera. Ditino e sputacchi su qualcuno, peraltro, che forse è ancora indagato (dall’FBI) ma non è stato incriminato di nulla – ed è in piena libertà. Sebbene non sia uno stinco di santo, beninteso – tanto più che lo scorso luglio Adams aveva comunque espresso scuse pubbliche tramite un comunicato (plea accolta freddamente dall’ex moglie Mandy Moore, tra l’altro). Peccato, poi, che nessuno abbia messo in luce una cosa che all’ascolto sembra più che ovvia: Wednesdays, uscito all’improvviso online e previsto “in solido” per il 19 marzo prossimo venturo, è davvero un gran bel disco, nel solco dei migliori del cantautore di Jacksonville, North Carolina, classe 1974.

Ryan Adams a Red Rocks in Colorado, 2018

Ma riordiniamo le fila del tutto. Wednesdays doveva essere il 2° di una trilogia di album da pubblicarsi nel 2019 – salvo poi aver messo tutto in stand by per via di tutte le accuse che gli sono piovute addosso. Passata, più o meno, la burrasca, ecco che il progetto riprende corpo – solo che Wednesdays da 2° disco diventa il 1° che vede la luce. Tutto chiaro? Album che conferma una palese trasformazione di Ryan: da gran epigono di modelli quali Bob Dylan e Gram Parsons (senza dimenticare Replacements/Paul Westerberg) che è sempre stato fin dai tempi andati coi Whiskeytown, negli ultimi scorci abbiamo colto una palese ricollocazione su registri molto affini a Bruce Springsteen. Il Boss nei suoi lati più enigmatici e decisamente poco festaioli, comunque – fra l’altro rielaborato con grandi guizzi di fantasia, come l’ascolto di Prisoner (2017) aveva mostrato, vedi pezzi come Outbound Train (geniale quasi-mash up fra Dancing In The Dark, I’m On Fire e Downbound Train) e diversi altri. Tendenza che qui trova libero sfogo – e non poco. Aggiungete anche che la vecchia copertina di Wednesdays aveva pure un’impaginazione con chiari rimandi a Nebraska (1982) – e il quadro è più che comprensibile a tutti.

La copertina 2019 di Wednesdays

L’opera è prodotta dalla nuova stella della consolle Beatriz Artola (Adele, LCD Soundsystem, Charlotte Gainsbourg), già coinvolta in Prisoner, qui con il supporto del celebre Don Was (Rolling Stones, Bob Dylan, Bonnie Raitt); e vede contributi di colleghi ben noti quali Jason Isbell, Emmylou Harris e Benmont Tench (Tom Petty & The Heartbreakers). Notare che Was e Tench negli ultimi anni hanno più volte fatto da backing musician ad Adams in diverse occasioni live. Altro particolare interessante, è che sia il brano che apre sia quello che chiude i 40 minuti abbondanti di Wednesdays non facevano parte della tracklist 2019 – e sembrano aggiunte ispirate ai fatti di cui sopra. Già, perché se si fanno girare I’m Sorry And I Love You, puntellata da un sofferto falsetto vocale e straziante background orchestrale, e Dreaming You Backwards, gospel asciutto e dal netto passo springsteeniano, si ha forte sensazione che si tratti di preghiere in song format – quelle di un uomo che è caduto ma che sta anche tentando di rialzarsi.

Nel mezzo si svelano canzoni che hanno quel tocco speciale delle sue migliori uscite – e che meritano tutte d’essere passate in rassegna.

Who Is Going To Love Me Now, If Not You: un blues nel pieno nella notte, supplica con taglio comunque stentoreo. When You Cross Over: atmosfera del Boss più intimista dalle parti di The Ghost Of Tom Joad (1995), con bellissimi ricami di piano di Tench e voce in the distance della Harris che regala quel tocco grievous angel/Gram Parsons. Walk In The Dark: strumming sempre molto Bruce, tappeto di tastiere che fa tanto epoca Darkness On The Edge Of Town (1978) o, volendo sottilizzare, epoca postumo The Promise (2010) – ma soprattutto atmosfera calda e convincente. Poison & Pain: Bob Dylan, fortissimamente Bob Dylanfingerpickin’ e piano sfumati l’uno sull’altro che più His Bobness di così si muore. Praticamente un bene rifugio.
Wednesdays: 5 minuti e passa di talkin’ che incantano, nel non avere una melodia definita né un ritornello. Lo chiamano stream of consciousness – qui, in punta di dita.
Birmingham: puro folk rock made in Ryan Adams, di quelli che riconosci a 1 miglio – e che avrebbe fatto un figurone dalle parti di Gold (2001) o di Cold Roses (2005), 2 fra i suoi album migliori.
So, Anyways: roba tetra, di chi la provincia americana ce l’ha nelle vene – puro Nebraska per le nuove generazioni. Mamma: di nuovo Emmylou là dietro a dar tocchi di voce & sapienza, per un pezzo al rallentatore pieno di pathos.
Lost In Time: suoni parchi e obliqui, con i colori impolverati del Boss Bruce che a larghi tratti lasciò il segno con Devils & Dust (2005).
Piace – piace molto questo Ryan Adams uscito ammaccato dalle bordate Me Too.