La dinastia Wainwright–McGarrigle con Rufus Wainwright ha trovato veramente il degno erede – e non lo scopriamo solo adesso con Unfollow The Rules, già atteso in primavera ma, come altri dischi di comune destino, rinviato causa pandemìa. Già, perché Rufus, al di là d’essersi imposto con un’immagine certamente fantasiosa e come colui che ha raccolto il testimone da Elton John come paladino del più sfacciato camp pop rock, quando apparve nel 1998 con il suo eccezionale debutto prodotto da Jon Brion, lasciò immediatamente il segno – tanto che appena dopo gli esordi di Chris Whitley e di Jeff Buckley, quell’album lo ricordiamo fra i proemi più belli dei 90s. Da allora ha regalato fatiche ambiziose come le 2 puntate di Want (2003-4), omaggi alla sua eroina Judy Garland, addirittura approntato le opere liriche Prima donna (2015) e Hadrian (2018), musicato i sonetti di William Shakespeare con Take All My Loves (2016).
Rufus Wainwright
Tuttavia Rufus piace di più quando fa il cantautore, ad ampio raggio quanto si voglia, come nel già evocato esordio o in Release The Stars (2007), l’altro suo disco irrinunciabile, prodotto nientemeno che da Neil Tennant (Pet Shop Boys) e con massicci interventi di uno fra i migliori amici di papà Loudon, Richard Thompson. Unfollow The Rules, va detto forte e chiaro, segue quel solco, anche perché a produrlo è un vero luminare della consolle qual è Mitchell Froom (Elvis Costello, Crowded House, Randy Newman, Suzanne Vega, il già citato Thompson, Pretenders, Los Lobos, Paul McCartney, addirittura il nostro Mirco Mariani, Peter Case, Bonnie Raitt, American Music Club); nonché a suonarlo sono stati chiamati assi quali Jim Keltner, Matt Chamberlain e soprattutto Blake Mills, il cantautore-chitarrista che di recente ha fatto da fondamentale perno nell’ultimo album di Bob Dylan, Rough And Rowdy Ways (2020).
Il cantautore con il padre Loudon Wainwright III e Elton John, 2001
Pur nell’ampia varietà di colori & note scelti, il lavoro ha netta coesione di fondo, capace di risultare asciutto (per quanto possibile, visto il personaggio) ma pure di sfoderare eco delle passate divagazioni. Miglior numero sembra proprio il brano guida, che fra l’altro era già noto grazie all’attrice Sarah Jessica Parker che lo cantò nel film Here And Now (2018): è il miglior Rufus possibile, quello che si rifà al Sir Elton (& Bernie Taupin) di qualche decennio or sono, melodico ma non melenso, pregno di pathos interpretativo e capace di scrivere quelle che indubbiamente sono grandi canzoni. E questa lo è. Ascolti e riascolti per intero Unfollow The Rules e indiscutibilmente altri momenti di grande spessore non mancano: per esempio la conclusiva Alone Time, dove si sentono sapori dei Beach Boys più belli ma pure cerebrali, quelli firmati Brian Wilson–Van Dyke Parks; Early Morning Madness, quasi 6 minuti di cabaret fra il vecchio Tom Waits anni 70 e i bassofondi L.A. chandleriani, salvo che qui la scena (moderna) della paranoia è Berlino; Trouble In Paradise, tocchi Bon Iver ma pure qualche rimando al John Lennon dalle parti di Mind Games (1973); Damsel In Distress, riff e arrangiamento che prende a piene mani nell’epoca quando David Bowie e Mick Ronson erano inseparabili (bellissimi, fra l’altro, gli stacchi di chitarra courtesy by Mills); Peaceful Afternoon, tanti fuochi d’artificio intorno a uno svagato passo mariachi; fino all’indecifrabile Devils And Angels (Hatred), dove l’orchestrazione è fatta di un impossibile vortice di archi e di serpeggiante techno music. Rufus Wainwright, una vita a non seguire le regole – ecco perché piace sempre stargli dietro.