Nella inner discography di Rickie Lee Jones vi è una tradizione che nel tempo ha preso piede in maniera preponderante: quello delle cover, naturalmente al femminile, che nella musica americana delle cantautrici la mette appena dietro le fuoriclasse della suddetta corrente, Laura Nyro in testa, e chiaramente come battipista per posteriori adepte, in primis Norah Jones ma anche personaggi più obliqui quali Cassandra Wilson. Kicks è solo l’ultimo capitolo di una serie di cover album che iniziò con il leggendario EP Girl At Her Volcano (1983), dove la grande artista di Chicago si districava in modo eccezionale fra pezzi dell’ex compagno Tom Waits (Rainbow Sleeves), dei Left Banke (Walk Away Renée), dei Drifters (Under The Boardwalk – versione da capogiro) e di tutta una scelta di grandi standard del classico canzoniere americano (Lush Life, My Funny Valentine). Poi toccò a Pop Pop (1991), prodotto da David Was (metà dei Was (Not Was) con il celebre finto fratello Don Was), dove è obbligatorio risentire l’eccezionale cover di Comin’ Back To Me dei Jefferson Airplane sponda Marty Balin nonché Up From The Skies di Jimi Hendrix; al forse più bello del lotto, It’s Like This (2000), ricco di perle come Show Biz Kids (Steely Dan), Trouble Man (Marvin Gaye) e The Low Spark Of High Heeled Boys (Traffic); e a The Devil You Know (2012), prodotto da Ben Harper e anch’esso imperdibile all’ascolto di grandi interpretazioni come quelle regalate in The Weight (The Band), Sympathy For The Devil (Rolling Stones) e Comfort You (Van Morrison).
Kicks, dunque, ha dei nobili precedessori nel lavoro di RLJ – che l’artista porta avanti senza colpo ferire, vincendo la sfida. Il bello dell’album, come i passati, è l’effetto sorpresa delle scelte equilibrato con interpretazioni non agiografiche: si passa dal repertorio pop a quello psichedelico, da quello jazz a quello country, dal rock alla canzone d’autore – il tutto con lo stile inconfondibile di una vera maestra dell’arte del performing. Per farla breve: a 40 anni esatti dal suo leggendario debutto con l’omonimo disco, Rickie Lee Jones riesce sempre a imporre che l’ascolto della sua musica risulti di gusto unico, in forma, elegante, di classe ma nello stesso modo senza perdere quel senso di sfida e d’irrequietezza che differenzia gli impiegati pop e i veri esteti con il tocco magico.
35 minuti di musica senza stanca né noia, anzi. Attacca con Bad Company, anthem dell’omonima band di Paul Rodgers & Simon Kirke, che rilegge fra spigoli e angoli smussati sospesa fra Tom Waits e Lyle Lovett; continua nel nome del mito tutto Old West di Elton John & Bernie Taupin epoca Tumbleweed Connection (1970), My Father’s Gun, che la Jones infila come un guanto che non fa una piega; e ti tira un secco gancio con Quicksilver Girl, che da psichedelica che era nel 1968 con la Steve Miller Band qui è un seducente esercizio di arcano jazz minimale, degno dei suoi amici Steely Dan. Per non parlare di come spoglia di elementare pop Lonely People degli America, facendone un quadretto vintage che sarebbe degno della Band o di Randy Newman; di come Mac The Knife dei sempre da lei amatissimi Kurt Weill & Bertolt Brecht, diventi bucolica, impalpabile e sexy; oppure di come Houston, leggendario brano che Lee Hazlewood scrisse per Dean Martin, giochi perfetta nell’essere vaga e sfumata, tanto che se dovessimo proprio scegliere il meglio del lavoro è qui che punteremmo il ditino. Già, che stimolanti questi Kicks.
Foto: © Dino Perrucci
© David McClister