Qualche tempo fa, assistendo a una conferenza dell’esimio critico musicale americano Anthony DeCurtis, rispondendo a chi gli chiedeva tra l’ingenuo e lo sprovveduto se anche lui facesse fatica a trovare “roba buona” di questi tempi se messi in confronto agli anni 60 e 70, il giornalista ebbe a rispondere in modo molto illuminante: «Se per uno strano scherzo tutta la musica prima del 2000 venisse completamente cancellata, io troverei tranquillamente cose interessanti e che soddisfino anche in questi ultimi 20 anni». Ecco, tutti quelli che si lamentano che “la musica di una volta era meglio e quella attuale fa schifo”, magari è più facile che si mettano ad affinare le proprie orecchie e a ricercare: perché di artisti fuori schema (giovani o quasi giovani) di classe e di profondità ve n’è, eccome. Già, perché pare proprio che, per esempio, uno come “l’orgoglio di SheffieldRichard Hawley, al di là dei patri confini dov’è seguitissimo e oggetto di culto, sia conosciuto davvero a un numero troppo esiguo di persone (l’ultima volta a Milano, diversi anni fa, si e no 30 anime ad assistere al suo show – sconsolante). E questo nuovissimo Further è solo il nuovo capitolo di una discografia fra le più belle, non solo in UK, dei 2 decenni – e già foriera di album di grandissimo spessore come il capolavoro assoluto Cole’s Corner (2005), Truelove’s Gutter (2009) e Standing At The Sky’s Edge (2012).

Further non tradisce le aspettative. Semmai consolida le convinzioni. Richard Hawley sa sempre giocarsi le proprie carte che hanno radici profonde: da Elvis Presley a Roy Orbison; da Duane Eddy (che ha splendidamente assistito più volte – e abbiamo toccato pure con mano “live on stage”) a Chris Isaak; da Bob Lind a Hank Marvin; da Lee Hazlewood ai Pulp del suo Pigmalione Jarvis Cocker; fino al Bryan Ferry più squisitamente entertainer e al suo grande totem Tony Christie (non è mancata una collaborazione fra i 2 con l’eccellente Made In Sheffield del 2008). Qui si trova tutto il mondo dell’artista, fatto di arrangiamenti certosini; rimandi che sono una vera goduria per tutti coloro con l’orecchio affinato a un certo gusto musicale; scrittura di parole & note sempre d’alto livello e senza mai cedimenti. Detto in breve: avercene di artisti di questo spessore – altro che “la musica di una volta era meglio e quella attuale fa schifo”.

In verità Further sorprende almeno in alcuni episodi come l’introduttiva Off My Mind, Time Is e Galley Girl, pezzi piuttosto duri per gli standard di Hawley, tanto che sembrano sfiorare il grunge. Moderate novità, insomma. Il resto è invece sulle frequenze della musica di Richard che già conosciamo e apprezziamo da lustri: ballate con pathos ma senza sfacciato “rapsodismo”, come se arrivassero da un’era indefinita fra gli anni 50 e adesso – vecchio e nuovo che si attraversano e sorpassano vicendevolmente senza soluzione di continuità. Dalla grazia molto Orbison di My Little Treasures alle orchestrazioni di frontiera decisamente Hazlewood di Further, passando per come ci piace immaginare Elvis farebbe musica oggi con la vellutata Not Lonely, oppure alla stupenda ballata Midnight Train che nel cantato ha un eccitante sapore molto John Martyn, ciò che regala questo disco è un ascolto maturo e affidabile, per chi cerca di stare ben lontano dalla serialità dei tempi che corrono.

Foto: Richard Hawley con Jarvis Cocker