David Bowie, tizio con sempre il fiuto giusto che negli anni non si è mai fatto sfuggire talenti sconosciuti o di culto quali Koerner, Ray & Glover, il Legendary Stardust Cowboy, Daniel Johnston o Ron Davies, in tempi non sospetti, sedotto dal «materiale sordido» (parole sue) dei Pixies, di Black Francis aka Frank Black e compagni, ebbe a dire che «quello che hanno fatto è stato cambiare il formato di come mettere insieme del rock duro» – senza scadere in molte delle banalità hard o metal, aggiungiamo noi. E difatti il Duca Bianco, udito il quartetto di Boston, sfanculò tranquillamente quanto fatto da egli stesso negli anni 80 (1987: esordiscono i Pixies mentre Bowie era in pieno nadir artistico con Never Let Me Down) per mettere insieme gli spesso troppo sottovalutati ma quadrati e straightothepoint Tin Machine, che suonavano Pixies fin nel midollo.
Per fortuna con i Pixies il destino è stato Benevolo, contrariamente a molti eroi alternative che non sono andati oltre lo stato cult. Il loro first coming a cavallo fra anni 80 e 90 in America ha scosso le fondamenta del rock alternativo in una specie di gara fra coste, east e west, con i Jane’s Addiction (questi ultimi ben radicati al sole della California) – mentre in UK arrivò anche un buon successo commerciale e apparizioni nei maggiori festival. Il second coming è stata l’ora del raccolto: accantonate le divergenze, i 4 mettono insieme di nuovo le forze e il lunghissimo tour partito nel 2004 che li ha visti protagonisti ha riscosso un successo mondiale ben oltre ogni aspettativa, con sold out assicurati di qui e di là dell’Atlantico. Fra l’altro, reunion suggellata dall’eccellente documentario loudQUIETloud/A Film About The Pixies (2006), perla sia per Pixies-freaks sia per cinefili. Eccoci al third coming dell’ultimo decennio: Kim Deal lascia la partita (intanto ricostituisce le Breeders con la sorella Kelly) ed è sostituita da Paz Lenchantin – ma sopratutto i Pixies tornano a incidere, prima con una serie di EP in seguito raccolti in Indie Cindy (2014) e poi con Head Carrier (2016). Risultato? Deludente. Quelle sono uscite stanche, che riflettono un po’ le tarde produzioni “spompe” di Frank Black, nel frattempo di nuovo a nome Black Francis (ben altra cosa i dischi fra l’omonimo debutto in solo del 1993 e Fast Man, Raider Man del 2006 – serie di album assolutamente imperdibile). Meno male che live, come abbiamo potuto appurare in prima persona, la storia non è affondata come i dischi usciti in concomitanza: leggi, i Pixies messi in un palco regnano sempre sovrani. A proposito, a brevissimo di nuovo in Italia: venerdi 11 ottobre al Paladozza di Bologna e sabato 12 alle Officine Grandi Riparazioni di Torino.
Detto ciò, era con un bel fucile a canne mozze che attendevamo il nuovo lavoro Beneath The Eyrie, annunciato da molti mesi. Fucile che ci tocca mettere via, ben al sicuro. I Pixies davvero stendono tutti con questa nuova dozzina di canzoni lucidissime – il sound è quello migliore del gruppo e non semplice revival per quanto ben riuscito. Non sembri euforia momentanea ma questo è uno fra gli album più belli usciti in questo 2019 dC. Black Francis canta come da tempo non sentivamo così convinto (da quando era Frank Black?), con quei registri un po’ David Thomas (Pere Ubu) e un po’ Tim Buckley che realmente lo rendono un “animale” raro; il songwriting per 40 minuti non mostra un filler che sia uno; la band suona come un treno dritto spedito a destinazione, qualunque la meta essa sia.
Già i 2 singoli anticipatori On Graveyard Hill, basso pulsante e chitarre perforanti, e Catfish Kate, ballata obliqua con controcanto avvolgente di Paz che sarebbe degna di Surfer Rosa (1988) o di Doolittle (1989), facevano capire che Beneath The Eyrie poteva essere un serio colpo di reni. E lo è. Poi spari a tutto volume In The Arms Of Mrs. Mark Of Cain, Daniel Boone (altra ballata di quelle che solo Black/Francis è capace), Silver Bullet, Bird Of Prey (Paz ancora perfetta ai cori nel disegno melodico), St. Nazaire (una specie di Cramps meets Tom Waits bastardo, molto bastardo) e Long Rider (una delle tipiche canzoni Pixies che hanno creato i Nirvana) – ecco, spari a tutto volume tutto ciò e ti sembra davvero di rivivere in ogni istante i tempi giovani e belli della band.
Ultima curiosità: il titolo dell’album, Beneath The Eyrie (che figurativamente si potrebbe tradurre come “rifugio inaccessibile”), è ispirato a un nido d’aquila scovato dal gruppo nel retro della chiesa dove il lavoro è stato registrato, peraltro i ben noti Dreamland Recording Studios nello stato di New York.