Ascoltiamo il nuovo doppio Cd live dei Pere Ubu, By Order Of Mayor Pawlicki (Live In Jarocin), e restiamo incantati dall’ansimante racconto che David Thomas snocciola poco prima di attaccare al fulmicotone Rounder, vecchio cavallo di battaglia tratto da The Art Of Walking (1980), il 4° album della formazione proveniente dal radioattivo Ohio: «Era l’anno 1967 e i Velvet Underground stavano facendo un tour in Texas – e capitò che una notte la passarono al Motel Dust, appena fuori Amarillo. Nello stesso Motel erano ospiti anche Junior Walker e i suoi All Stars. Nel pieno della sera Lou Reed e Junior erano seduti nella lobby a conversare, quando all’improvviso qualcuno li interruppe per dir loro che George Clinton avrebbe fatto un concerto ad Amarillo nel giro di un’ora o poco più. In men che non si dica Lou, Junior e altri saltarono nella Coup Deville di Walker – e filarono dritti dove si teneva l’esibizione. Questa canzone potenzialmente potrebbe essere il resoconto di quella notte, come l’avrebbero scritta Lou e Junior». Fantasia mirabolante del possente Thomas.
Pere Ubu
Questo Mayor Pawlicki, però, non è solo l’evocato gustosissimo aneddoto, ma un doppio live (con cotillon in omaggio) che farà veramente felici i vecchi fan dei Pere Ubu, contando anche le non proprio brillanti condizioni di salute del leader – che oggidì cammina tremante con un bastone e fa concerti seduto, per non affaticarsi troppo. Il tutto è frutto di una data nel luglio 2017 allo Scena Rynek Festival di Jarocin, in Polonia, durante il tour a supporto di 20 Years In A Montana Missile Silo (2017), forse il più bello dei dischi Ubu pubblicati nel Nuovo Millennio. E bisogna proprio dire che il tutto suona potente, trascinante, rantolante e tenebroso come da regola della formazione.
Il verbo Ubu qui sfavilla vivido, a cominciare dall’introduttiva Heart Of Darkness, uragano tratto dall’Ep Datapanik In The Year Zero (1978) che stabilisce immediatamente il mood: qui non si fa revival né si scherza, nonostante gli anni passati e gli acciacchi sopraggiunti. Dopodiché si sente di tutto: Thomas che scherza ma pure provoca il suo affezionato pubblico («Voi siete qui a starnazzare – e allora lo faccio anch’io! Tanto voi non mi capite, e va bene così, anche perché io non capisco voi…», sentenzia in appendice a Navvy), nonché vecchio (soprattutto) e nuovo del loro repertorio in un turbinìo senza soluzione di continuità, con Modern Dance, Rhapsody In Pink, Codex, Dub Housing, Long Walk Home, Final Solution e tutti gli altri numeri che rimbalzano spastici per quasi 80 minuti. Niente 30 Seconds Over Tokyo ma è lo stesso, perché se lo cercate sapete dove andarlo a trovare.
David Thomas
Accennavamo a un cotillon – che per inciso è un Ep indisponentemente intitolato We Don’t Do Encores, che ancor più regala di che gioire. Tipo una fulminante cover di Kick Out The Jams, courtesy dei leggendari MC5, che Thomas & Co squadernano alla perfezione, artigli bellicosi inclusi; per non parlare del medley che inchioda Sonic Reducer dei Dead Boys, l’Ubu-conterraneo gruppo nel 1976 fondato da Stiv Bators e Cheetah Chrome (quest’ultimo già compagno di Thomas e di Peter Laughner nei più che mitizzati Rocket From The Tombs), e nientemeno che una strumentale Smells Like Teen Spirit dei Nirvana; oppure la genialata di reinventare un loro classico con ipnotiche e lentissime note a 12 battute, vedi precisamente Modern Dance Blues. Per farla breve, un’ovazione per l’Ubu Roi che è ancora vivo – e lotta assieme a noi!