“Piacere – mi chiamo Paul McCartney, fra un paio di giri intorno al sole avrò 80 anni, qualche volta mi sono fatto chiamare Paul Ramon mentre altre Apollo C. Vermouth, ho fatto parte dei Beatles, ho inventato gli Wings, credo che fra tutto io abbia venduto più di 1 miliardo di dischi, sono ricco sfondato e faccio ancora musica“. Un’ipotetica cartella stampa di Paul McCartney potrebbe iniziare così, giusto per mettere in soggezione chiunque osi dire qualcosa che stoni un po’, che sia fuori dal coro. Bene, eccoci a McCartney III, il nuovissimo album di Macca, che è in rampa di lancio a livello pubblicitario da 1 mese abbondante, con tanto di ampia recensione del noto magazine americano Rolling Stone in anteprima di settimane rispetto all’uscita dell’album – recensione in anteprima iper inutile, perché le recensioni senza che si abbia sottomano il disco non servono, francamente, ad alcunché. Confronto zero, arbitrarietà prezzolata come se piovesse. Tant’è.
Iniziamo col dire che McCartney III, dopo l’indigesto Egypt Station (2018), forse il nadir di un’intera carriera a dir poco gloriosa, è stato presentato solleticando non poco la fantasia degli affezionati di mccartneyismo: già, perché lo stesso artista lo ha pubblicizzato ai 4 venti come il seguito di McCartney (1970) e di McCartney II (1980), 2 assoluti caposaldi della sua discografia post Scarafaggi. Il tutto partendo da una logica molto bottom line: come in quei 2 album di decenni addietro, Sir Paul qui fa tutto da solo, all instruments and vocals – consorte Linda a parte, allora presentissima. In verità, avrebbe potuto intitolarlo McCartney III & ½, siccome anche nell’eccellente Chaos And Creation In The Backyard (2005) la tendenza era quella di far tutto un po’ da solo, al netto della produzione di Nigel Godrich (Radiohead, Air, Beck, Travis) e contenuti interventi altrui. Chiamale, se vuoi, sottigliezze da vecchio affezionato.
Ascoltato per bene McCartney III, sennonché, un certo senso di delusione sopravviene. 45 minuti dove l’ex ragazzo di Liverpool pasticcia non poco, gioca spesso di mano pesante e, più di tutto, mostra la corda come compositore, soprattutto se lo mettiamo a confronto con i Grandi Vecchi che solo nell’ultimo quinquennio o poco più hanno regalato davvero album maiuscoli: Leonard Cohen, Bob Dylan, David Bowie, Ry Cooder, Pretty Things, Ray Davies, David Crosby, Iggy Pop, Van Morrison, addirittura Keith Richards, che con il suo ultimo album in solo, Crosseyed Heart (2015), ha non poco vinto e convinto. Ma vediamo nel dettaglio cosa offre la carte di questo McCartney III. Mettetevi comodi: ecco il vaglio completo delle pietanze.
Long Tailed Winter Bird – Quasi strumentale con-vocalizzi-a caso di oltre 5 minuti, prologo all’opera. Roba che non si capisce di dove tragga ispirazione: giro insistente di chitarra acustica sul banalotto andante – e tanto contorno inutile di chi pastrocchia in studio. Ridateci Temporary Secretary e le fantasticherie del Fireman. Zozzeria #1.
Find My Way – Non male: pop cantato in gran parte in falsetto e stacchi strumentali (moog e cose del genere) che colorano il tipico mondo fiabesco di Paul.
Pretty Boys – Brano d’impianto acustico che non è nulla di che ma si fa ascoltare fino alla fine senza turbamenti, sospeso com’è fra Neil Young e rimandi al White Album (1968).
Women And Wives – Pezzo pianistico, voce impostata tipo Lady Madonna ma incedere più solenne: niente di nuovo ma nemmeno niente di male.
Lavatory Lil – Rockabilly travestito pop che, non fosse i suoni puliti in linea coi tempi, l’eco è quello fra i Beatles di Beatles For Sale (1964) e Help! (1965). Lo chiamano “mestiere”.
Deep Deep Feeling – 8 minuti con campionario vario di poche-idee-ma-confuse che si perdono fra piano persistente, falsetti, controcanti insulsi, crescendo sconclusionato. Sebbene in versione solitaria ricorda la Rockestra di quel mezzo aborto che fu Back To The Egg (1979), l’ultimo album dei Wings. Zozzeria #2.
Slidin – Il buon Dio ci scampi da Macca che s’immerge nel prog. Purtroppo, quantunque, qui il buon Dio non ce lo ha risparmiato. Farraginoso, tronfio, insostenibile. Zozzeria #3.
The Kiss Of Venus – Finalmente qualcosa che piace fino in fondo. Acquarello acustico in perfetta lunghezza d’onda con il Paul che metteva su famiglia con Linda e faceva dischi deliziosi come il già citato McCartney e Ram (1971). Una sciccheria lo stacco di clavicembalo che fa così Beatles 1967.
Seize The Day – Piano elettrico fluttuante per una pop song che si aggira fra Rubber Soul (1965)/Revolver (1966). Cliché a profusione ma, anche qui, niente di male. Si ascolta con piacere.
Deep Down – Non avesse interventi inconcludenti, tipo i fiati riprodotti in studio che fanno molto Press To Play (1986) (e abbiamo detto tutto), non sarebbe male: la struttura del pezzo poggiato sulle tastiere c’è. E c’è pure Macca con interessante rollercoaster vocale. Zozzeria #3 & ½.
Winter Bird/When Winter Comes – Aiuto, torna il riff del brano introduttivo ma, per fortuna, per pochi istanti. Poi tutto si trasforma in numero disadorno figlio diretto di Blackbird–San Ferry Ann–Put It There–Vanilla Sky e anche parente delle ballate del suo old friend Donovan. Anche qui, il cliché è macroscopico ma un po’ di sana emozione la smuove.